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 Diario di viaggio SamarCaLda 2007

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(Ashgabat (TM), frontiera TM - UZB, Bukhara (UZB))

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Giornate: 
14 agosto 2007 - “Stasera, in prima assoluta, la sceneggiata beneventana! Ossia: Come cercare di uscire da una frontiera chiusa”
15 agosto 2007 - “Finalmente liberi in Uzbekistan!”

14/08/2007 - “Stasera, in prima assoluta, la sceneggiata beneventana! Ossia: Come cercare di uscire da una frontiera chiusa”
Mi sveglio alle 9:30. Il mal di testa di ieri non è passato.
Sono molto indeciso sul da farsi. Sul visto sono annotate le località intermedie verso il punto di uscita a nord del Turkmenistan, direzione Khiva. Siccome il visto scade oggi, potremmo uscire verso Est, direzione Bukhara. La distanza è molto inferiore, dovremmo farcela ad uscire entro mezzanotte. Penso sia meno grave uscire da una città diversa piuttosto che avere il visto d’ingresso scaduto. In ogni caso voglio provare ad estenderlo. Ieri al porto mi hanno detto che si può fare.
Ci svegliamo del tutto alle 10:30. Scendiamo per la colazione, servita in un vicino bar convenzionato con l’albergo. Per 2 minuti siamo fuori il tempo massimo, non ci danno nulla. Grazie!
Lasciamo questa bettola schifosa e il suo personale maleducato.
Inizia la caccia al monumento a Lenin, l’unico rimasto in città, di fronte al quale dovrebbe esserci l’ufficio visti. Almeno stando a sentire quello che mi hanno detto ieri a Turkmenbashi.
Dopo qualche giro lo troviamo, immerso in un bel parco. A fianco, un moderno ufficio governativo. Afferro il walkie-talkie e inizio l’avventura dell’estensione del visto. Mi dirottano subito verso il palazzo effettivamente di fronte a Vladimir Ilich, dall’altro lato della strada. Meno moderno, più affollato. Comunico il nuovo tragitto a Caterina, che mi segue a distanza, esausta da questi ultimi due giorni così poco riposanti.
Entro, chiedo a una guardia dove sia l’ufficio che si occupa dell’estensione dei visti. Lo trovo, c’è una ragazza prima di me. Quando l’addetto mi vede in fila, vestito da marziano, interrompe un attimo con la tipa e mi chiede:
“Cosa le serve?”
“Dovrei estendere il visto.”
“Ah ... quando scade?”
“Oggi.”
“Mi dia il passaporto.”
Glieli passo entrambi. Sembra gentile ed efficiente, ma dopo l’esperienza di ieri non mi fido più.
Leggendoli, cambia faccia improvvisamente:
“Ma sono visti di transito!”, esclama come se avessi cercato di spacciargli dei soldi falsi.
“Sì, ieri al porto di Turkmenbashi ci hanno detto che qui si possono estendere.”
“Un momento”, dice alzandosi per andare a consultarsi col suo responsabile.
Dopo un paio di minuti torna a sentenzia:
“Non è possibile estendere i visti di transito!”
Una doccia fredda, che un po’ temevo. Provo a ribattere:
“Ma ieri mi hanno detto che era possibile, per cortesia ...”
“No, mi spiace, è impossibile. Deve arrivare a Farab entro le 19.”
Non riesco a capire il motivo del limite alle 19 invece che a mezzanotte. Forse sa che ci vuole molto tempo per le pratiche. Oppure la frontiera chiude, ma mi pare strano.
Ringrazio ed esco di corsa, comunicando a Caterina di iniziare a vestirsi che dobbiamo fuggire.
Comincia la corsa folle contro il tempo: sono le 12. Abbiamo 7 ore di tempo per percorrere 600 km su queste strade impossibili: buche incredibili, avvallamenti immensi, traffico pericoloso e imprevedibile.
Cerco di andare a 120 km/h fissi. Voliamo letteralmente sui dossi, simili a rampe di lancio. Tocchiamo spesso il cavalletto e in generale il fondo della moto nelle buche e negli avvallamenti.
Sono incazzato nero. Stiamo correndo così tanti pericoli ... per un visto che scade! Uno stupido pezzo di carta che per regole astruse non può essere esteso. Assurdo!!

 

Un turkmeno, secondo Caterina

 

I turkmeni per Caterina
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Mentre guido al limite lancio maledizione al Presidente, ai poliziotti, i militari, i Ministeri, i doganieri, i visti di tutto il mondo, alle strade, ai camion che occupano tutta la carreggiata, ai carretti che attraversano incuranti del mondo circostante, delle auto che sorpassano senza guardare chi arriva, di tutti i veicoli turkmeni che sembrano volerci ostacolare.
É difficile anche uscire dalla città, non ci sono cartelli e stavolta non mi fermo volentieri perchè significa o fare un buco nell’acqua perchè l’interlocutore non capisce nè il russo nè tanto meno l’inglese oppure, nel migliore dei casi, si ottiene una spiegazione chilometrica e impossibile da memorizzare.
Sbaglio un paio di volte poi riusciamo a beccare la direttrice per Mary e l’Uzbekistan. Il traffico è molto intenso e disordinato.
Altra brutta sorpresa: speravo di percorrere almeno un centinaio di km su 4 corsie come era avvenuto durante il nostro arrivo da Turkmenbashi. Verso Mary, invece, la parte rinnovata si esaurisce in pochi km! Fatto anche peggiore, inizia un cantiere infinito proprio a ridosso della stretta carreggiata, che risulta così ulteriormente ristretta, avvolta dalla polvere alzata dai camion al lavoro, i quali di tanto in tanto decidono di invadere e bloccare anche la nostra corsia.
Per colpa del traghetto azero e della sua partenza ritardata di 2 giorni, abbiamo prima perso la possibilità di attraversare il deserto a nord di Ashgabat, di visitare le rovine di Kone-Urgench e la meravigliosa Khiva, in Uzbekistan. E ora siamo in difficoltà estrema con il visto.
Nei pressi di Ashgabat il paesaggio è anonimo: una bassa steppa grigio-verde senza alcuna attrattiva. Qualche raro albero lotta per la sopravvivenza tra sete, caldo e polvere. Il traffico è intenso, disordinato.

 

 

Verso Farab

 

La precedenza è mia!
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Montagne all’orizzonte, steppa. Il tempo scorre rapido, la strada lenta.
Dopo Mary, immensi campi di cotone. Non ci fermiamo mai, solo la benzina, più o meno ogni 200 km.
Dopo aver saltato la colazione, saltiamo anche il pranzo. Durante le soste benzina ingurgitiamo quantità industriali di Coca Cola, a volte acqua. Spesso le bottiglie che ci danno sono completamente ghiacciate, ma con il caldo che c’è tornano liquide in poco tempo. In ogni caso è l’unico modo per averla ancora accettabilmente fresca anche dopo mezz’ora di phon in moto.
Corriamo contro il tempo e contro la il-logica umana. Le ore passano, sembra sempre di essere nello stesso punto. Il fondo della moto tocca sempre più spesso. A volte spicchiamo veri e propri salti, entrambe le ruote staccate da terra. Sto spaccando la moto e rischiando grosso. Me ne rendo conto e maledico per l’ennesima volta la burocrazia turkmena.
Durante la giornata il sospetto che il limite delle 19 sia dovuto alla chiusura della frontiera prende sempre più corpo. Soprattutto quando mi torna alla mente un analogo problema quando entrai in Uzbekistan dal Kazakistan nel 2001. Spero di no, perchè siamo al limite.
Inizio a non fermarmi più ai posti di blocco. Rotonda o incrocio, solita casupola dei PYGG, il corpo militare di guardia alla viabilità, poliziotto che mi indica col manganello a significare “Accosta!”, io che proseguo come se nulla fosse, il militare che mi urla dietro, dandoci dentro col fischietto lui o un collega, non so.
Ai primi mi fermo, ma poi capisco che sta diventando troppo tardi. Non mi va di fermarmi per sentirmi porre le solite, inutili, idiote domande: “da dove venite?”, “dove andate?”, “siete sposati?”, “avete figli?” (solita faccia incredula e quasi scandalizzata quando rispondo “Nessuno”), “quanto costa la moto?”, “quanto fa?”, “quanto consuma?”, “quanti cilindri ha?” e via via domande sempre più tecniche fino a quando non mi stufo e gli dico che devo proprio andare.
Salto il primo quasi per caso, indeciso fino all’ultimo su cosa fare. Ad una rotonda continuo a girare, in uno stato semi-incosciente, assillato dal Pensiero Frontiera. Il poliziotto rimane interdetto. Quasi non ci crede che non mi sto fermando. Si riprende, mi urla dietro.
“Amour, ti ha fermato!”, mi dice Caterina, anche lei incredula mentre si gira per controllare come sta reagendo il poliziotto.
“Lo so ... ma non mi va di fermarmi!”, le rispondo distrattamente, come se fosse una cosa normale.
Urla ancora, fischia. Vai, saltato! Ormai sono lontano. Penso che se quello che ho fatto è grave, il posto di polizia lo comunicherà al successivo, che provvederà a fermarmi in maniera più decisa.
Alla cittadina successiva, nuovo posto PYGG. Rallento, ma non troppo. Di nuovo: solito poliziotto a lato della strada, mi punta il manganello. Proseguo senza rallentare. Urlacci, fischietti. Tiro dritto. Scompaiono dallo specchietto.
Di nuovo, mi dico: se ci sono problemi mi bloccheranno al prossimo posto di blocco!
Invece no, ogni nuovo posto di blocco, stessa identica sequenza.
Mi fermo solo ad uno, in mezzo al deserto sotto una grande porta che segna il passaggio dal Nulla al Nulla. Sono stanco, ho voglia di riposarmi. Mi faccio offrire spudoratamente del tè, mentre rispondo alla solita sfilza di domande sempre uguali. Chiedo conferma della strada e della chiusura della frontiera. Non ne sanno nulla. Saluto cortesemente e riprendo la Corsa Inutile Contro Il Tempo E L’Umana Follia.

 

Verso Farab

 

Sicuramente le dune sono
più lisce della strada!
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Verso l’Uzbekistan il paesaggio diventa sempre più desertico. Piccole dune di sabbia che a volte invadono la carreggiata con lingue calpestate dai camion e da me accuratamente aggirate. Bassa vegetazione tipicamente desertica. Orizzonte infinito. Le montagne sono scomparse, solo dune a perdita d’occhio.
In tutto mancano meno di 200 km. Mi accorgo troppo tardi che sto di nuovo finendo la benzina. Calcolo di avere un’autonomia di circa 100 km. Ci fermiamo ad un incrocio polveroso a chiedere informazioni.
“Il benzinaio successivo è a 120 km ... altrimenti ce n’è uno di là ...” - e indica la direzione da cui arriviamo - “... a 20 km.”
L’avevo visto all’ultimo istante e avevo deciso di proseguire, sperando di trovarne un altro.
Tornare indietro per 20 km, poi da rifare per un totale di 40, significa almeno mezz’ora persa. Ma finire la benzina proseguendo sicuramente sarebbe molto peggiore. Purtroppo dobbiamo invertire la rotta e regalarci 40 km in più...
Il tipo si offre di accompagnarmi, deve fare benzina anche lui. Mi precede. Buche già affrontate, ancora salti, la moto ormai tocca alla minima incavatura della strada, cioè sempre.
Camion che tagliano la strada, lingue di sabbia che chiedono il loro tributo, polvere che annebbia la vista.
Benzinaio, vento potente che quasi mi strappa di mano le banconote, pieno (tra l’altro, ormai non si trova più benzina con più di 85 ottani, a volte anche 81), ripartenza immediata!
Il sole è sempre più basso all’orizzonte, proseguo la mia corsa a testa bassa, rabbiosa, un’imprecazione per le buche più profonde, bestemmio. Purtroppo è chiaro che non ce la faremo mai per le 19, ma non mollo.
Arriviamo a Farab qualche minuto dopo le 19. Non ci sono indicazioni per la frontiera. La direttrice principale si scioglie in un labirinto incoerente e liquido di stradine. Ad ogni incrocio chiedo informazioni, ogni volta una svolta diversa e inattesa. Ad un certo punto ci affianca un’auto. Si affaccia un militare:
“Dovete andare alla frontiera?”
“Sì!!”, gli rispondiamo in un coro disperato.
“Seguiteci!”
Prosegue così la Danza nel Labirinto, svolte su svolte, un bivio dopo l’altro. Avremmo perso un’altra mezz’ora come minimo.
Sbarra chiusa che blocca tutta la strada, gabbiotti e uffici: siamo arrivati! Il militare tira il braccio fuori salutandoci dall’auto. Prosegue, noi dobbiamo fermarci. Sono le 19:30.
Caterina è al limite, a me gira la testa. Siamo digiuni da 15 ore e la giornata è stata pesantissima.
Faccio tutto io, come al solito anche per il solito ostacolo della lingua, rigorosamente russa.
Mi chiedono i documenti, sono gentili, efficienti. Prima i passaporti, poi i documenti della moto.
Inizia la solita compilazione di foglietti e ricevute varie che si accumulano nelle mie mani una dopo l’altra.
Mi chiedono il pagamento di una tassa di frontiera, una decina di dollari. Ovviamente non accettano la loro valuta, esclusivamente dollari. Cerco di fare resistenza, ormai me ne restano molto pochi. Nulla da fare. O dollari o non si passa. Li estraggo senza dare troppo nell’occhio dalla piccola tasca che tengo sotto ai vestiti, sulla pancia. Sono umidi di sudore, ma li arraffa senza problemi.
Primo gabbiotto superato, ora tocca al successivo. Sono veri e propri uffici. Se la loro dimensione è proporzionale ai guai, allora inizieranno adesso. Alzano la sbarra, porto avanti la moto di qualche metro. Mi avventuro nella bassa costruzione mentre Caterina si accascia esausta sul gradino davanti all’ingresso.
Altri documenti, altri controlli. Timbri su passaporto e su alcuni tagliandi e ricevute appena fatte.
Torno fuori accompagnato da un militare che vuole controllare i bagagli.
Caterina, appena ci vede, per paura di problemi e lungaggini e soprattutto per tutta la tensione, la fatica e la rabbia accumulate, scoppia in lacrime. Resto senza parole. Durante la giornata avevamo parlato diverse volte di come fare per superare l’ostacolo frontiera. Scuse varie, malattie inventate, mazzette.
Dentro di me, mi dico:
“Vai, è iniziata la sceneggiata!” e rimango più o meno impassibile, esausto a mia volta.
Il militare è nella confusione più completa.
“Che ha??”, mi chiede preoccupato.
Mi chino verso Caterina a tradurre:
“Cate, mi chiede cos’hai, cosa gli rispondo?”
Tra un singhiozzo e l’altro risponde:
“Dille che sono incinta!”
Cerco rapidamente la parola sul dizionario di russo e comunico la diagnosi agli interlocutori che nel frattempo sono aumentati, sentendo il pianto disperato di Caterina, sempre più intenso man mano che la tensione si scioglie e il desiderio di abbandonare all’istante questo Paese aumenta.
I documenti non hanno più alcuna importanza, vogliono sapere cos’ha.
“É incinta!”
Si incazzano sinceramente e duramente. Uno mi fissa aggressivo:
“E tu porti una donna incinta in moto per tutto il giorno su queste strade???”
Capisco la mala parate e correggo il tiro:
“No, forse è incinta!”
La loro reazione non migliora, scuotono la testa disapprovando fortemente il mio comportamento irresponsabile.
“Va bene, chiamiamo un’ambulanza allora, la portiamo all’ospedale in città”
Panico. Lo comunico a Caterina che ovviamente risponde:
“NO! Digli che dobbiamo assolutamente proseguire!”
Comincio anch’io la recitazione:
“No, vogliamo ripartire il prima possibile, dobbiamo tornare in Italia! Abbiamo l’aereo da Tashkent tra 2 giorni, dobbiamo assolutamente arrivare a Bukhara stasera così domani saremo a Tashkent!”
La loro risposta mi gela:
“Ma non potete ... la frontiera è chiusa! La parte uzbeca chiude alle 18!”
Quindi non le 19! Addirittura le 18!! Da un lato mi consola che non avremmo mai potuto farcela, quindi non era più questione di mezz’ora di ritardo, ma di ben un’ora e mezzo. Completamente fuori discussione.
Dall’altro lato, la situazione si fa difficile. Siamo bloccati in frontiera con un visto che vale ancora poche ore, in un’anonima e inutile cittadina, con Caterina in lacrime e tutti i doganieri attorno a noi, visto che la frontiera è ovviamente vuota.
Sono le 20 e non sappiamo cosa fare. Quello che sembra essere il comandante, decide per noi:
“Basta, chiamiamo l’ambulanza!”, vedendo Caterina ancora in lacrime.
Ok, mollo gli ormeggi anch’io e cerco di rilassarmi per far sciogliere la tensione. La giornata è finita, ora si tratta solo di capire dove dormire e cosa mangiare. Domani è un altro giorno, al visto scaduto ci penseremo al momento opportuno. In fondo ci hanno visto che siamo arrivati in tempo, spero si dimostrino comprensivi. Lato Uzbekistan, invece, nessun problema: il visto dura un mese e se entriamo un giorno dopo non succede nulla.
Mi siedo accanto a Caterina, abbracciandola. Si calma, chiacchieriamo piano, gli racconto cosa mi hanno detto, la loro incazzatura nell’apprendere che ho portato in moto per tutto il giorno una donna incinta.
Sorride amara, il piano non è riuscito e restiamo bloccati in un Paese che non tolleriamo più, che ci opprime.
Il sole tramonta, siamo illuminati solo dalle poche luci che arrivano dagli uffici. Un poliziotto propone a Caterina di sdraiarsi, ma non vuole entrare, dentro si soffoca.
“Dietro c’è un letto, può sdraiarsi là!”, rilancia lui.
Ok, si può fare. Il letto in realtà è una brandina sfondata sul retro della costruzione. É appoggiata sulla terra, giusto a fianco di un alto e folto canneto.
In pochi istanti ci rendiamo conto di un’altra sventura: veniamo letteralmente avvolti da nugoli di zanzare. Centinaia, migliaia. Pazzesco. Neanche in Camargue era così o in altri infami posti di frontiera attraversati negli anni passati.
Caterina si sdraia, chiude completamente la giacca, indossa guanti e casco, chiuso. Io mi arrangio annaffiando di Autan ogni possibile punto debole, ma nonostante questo sento raffiche di morsi.
Dopo neanche un quarto d’ora arriva l’ambulanza a sirene spiegate. É moderna, in ottime condizioni. Scendono di corsa due infermieri dai tratti perfettamente mongoli: zigomi alti, pronunciati, occhi a mandorla, naso un po’ schiacciato, carnagione scura. Indossano camici immacolati e dei cappelli da chef: alti e che si vanno ad allargare nella parte superiore.
La scena sarebbe più che comica, surreale, ma non posso ridere nè ovviamente scattare fotografie, che meriterebbero senz’altro.
Inizio la ricerca sul dizionario di una serie di termini medici, che ignoro nel modo più completo.
“Cos’ha?”, chiedono professionali.
“Ha dei crampi molto forti, forse è incinta.”
Caterina si toglie il casco, proteggendosi con un asciugamano. La visitano nella brandina, toccando l’addome e cercando di capire cos’abbia. Siamo sempre avvolti dalle zanzare.
“Ok, non è grave, ma dobbiamo farle una iniezione!”
Quando lo traduco a Caterina, quasi fa un salto.
“Digli di no, nella maniera assoluta!”, risponde terrorizzata.
“No, non vuole fare iniezioni...”, gli comunico stancamente.
“Ma è una cosa da nulla, poi starà meglio!”, ribatte l’infermiere.
“Davvero, non può ... É ... allergica! Sì, allergica al metallo dell’ago!”, rispondo inventando di sana pianta.
“Ma è impossibile! Sono aghi anallergici.”
“No, non può, nemmeno in Italia le fanno le iniezioni, è allergica. Non avete delle pillole?”
Si fanno pensierosi, confabulano in turkmeno.
“L’iniezione è molto più efficace...”, risponde in un ultimo tentativo di convincerci.
“No, solo pillole...”, rispondo cercando di chiudere la discussione.
“Ma non le abbiamo! Dobbiamo portarla in ospedale!”
Ora inizio a innervosirmi... La sceneggiata di Caterina sta coinvolgendo ambulanze, ospedali, infermieri, creando difficoltà di medicine, iniezioni, pillole e quant’altro ed è completamente inutile! Non so come uscire da questa situazione imbarazzante e faticosissima. Sono esausto dalla giornata e ho addosso due infermieri e 3 doganieri che cercano di trovare la soluzione di un problema inesistente.
Propongo di guardare tra i nostri medicinali se c’è qualcosa che possa andar bene. Annuiscono felici.
Vado a prendere le due borsette stipate di pillole e gliele passo. Iniziano a guardarci dentro con immensa curiosità, la stessa felicità che vedrei sul viso di un archeologo che curiosa dentro una toba appena scoperta, che decifra una tavoletta di geroglifici. Estraggono e ammirano questa quantità incredibile di medicinali. Quando arrivano a Normix sentenziano:
“Ecco, questo potrebbe andar bene, ma vediamo se c’è dell’altro di meglio”, mi comunicano ormai più simili ad alchimisti o cartomanti, che a veri medici.
Il fuochino di Normix diventa fuoco quando arrivano a Buscopan:
“Ecco! Questo è perfetto!”, dicono allargandosi in un sorriso soddisfatto.
Mi dicono la posologia che tanto non farà mai, mi danno una pastiglia che passo a Caterina, che tira su la testa e ingoia con un sorso d’acqua.
Mi fanno firmare un foglio.
“Quanto devo?”, chiedo ai due.
“Nulla, non si preoccupi!”, rispondono infilandosi in un lampo nell’ambulanza e sparendo nell’oscurità.
Faccio appena in tempo a ringraziarli, torno da Caterina. Sta dormendo.
“Devi spostare la moto!”, mi ordina un militare. Non capisco che fastidio dia. É da un lato, non blocca nulla e soprattutto la frontiera è completamente deserta!
In ogni caso obbedisco. La sposto di un paio di metri. Saggio il terreno, sembra solido. L’appoggio. Non faccio in tempo a fare 10 passi che sento un fracasso e un rumore di plastiche infrante alle mie spalle. Mi giro sapendo già cosa vedrò. Nelìk è a terra, con le ruote per aria, come un animale ferito.
Bestemmio, mi aiutano ad alzarla. Un pezzo di carena rimane a terra.
La metto di nuovo dov’era, stavolta non mi dicono nulla! Torno da Caterina, anche per pensare ad altro.
Dal retro della costruzione esce una bambina che inizia ad apparecchiare un tavolino malconcio, come quelli dei bar di paese. Un militare si avvicina:
“Volete mangiare qualcosa?”, mi chiede con tono amichevole.
“Sì!”, rispondo affamato da quasi 24 ore di digiuno.
Chiedo anche a Caterina che, come immaginavo, rifiuta e si riaddormenta all’istante.
Mi siedo con altri due militari. Mangiamo avvolti dalle zanzare e dal silenzio, a parte qualche domanda reciproca. Sono fratelli, lavorano qui da quasi 20 anni. Sono fortunati, di lavoro non ce n’è molto.
La bambina mi riempie il piatto di riso pilaf, buono. C’è un unico, piccolo pezzo di carne in ogni piatto. Tutti lo teniamo da ultimo, come pezzo forte della cena. Da bere, classico tè verde in ciotole di porcellana sbeccate.
“Vuoi qualcosa come dolce?”, chiede il più giovane dei due.
“Non so, non c’è problema...”, rispondo confuso.
Urla qualcosa alla bambina dentro la casa, che dopo un minuto esce con un piattino in mano, pieno di biscotti. Ne mangio un paio, dicendomi che dietro la dura scorza dei doganieri in fondo c’è sempre un essere umano. Spesso, purtroppo, è ben nascosto.
“Vuoi anche del cocomero?”
“No, grazie, davvero!”, rispondo imbarazzato da tanta ospitalità.
“Nessun problema, lo ordiniamo dal fruttivendolo qui vicino!” e via di nuovo a urlare ordini alla bambina, che dopo pochi minuti torna e dà la notizia:
“Il negozio è chiuso, niente frutta...”
Peccato!
Passa un’altra mezz’ora, sono quasi le 22. La stanchezza inizia a farsi sentire pesantemente. Non sappiamo che fare. Se restiamo qui, domani saremo col visto scaduto. La guardia dice che non avremo particolari problemi:
“Pagherete una piccola multa e tutto sarà a posto!”, dice in tono allegro.
Nella mia testa continuo ad immaginare la frontiera uzbeca aperta e pronta ad attenderci, mentre loro non vogliono farci proseguire. Invece confermano che l’Uzbekistan è chiuso e loro si son dovuti adeguare. Proprio non me l’aspettavo.
Caterina si alza, facciamo il punto della situazione. Non capiamo cosa c’è davanti: un altro pezzo di Farab, l’Uzbekistan, altro? Da quando siamo qui è arrivata sporadicamente qualche auto, che poi ha proseguito dopo un controllo rapidissimo e nell’oscurità di fronte a noi vediamo delle auto muoversi, si indovinano delle costruzioni piuttosto vicine al punto in cui ci troviamo. In più i militari, poco fa, hanno fatto riferimento sia all’ospedale che a un eventuale albergo indicando al di là della sbarra, quindi in quello che dovrebbe essere l’Uzbekistan, ma che forse non è.
Non riesco ancora a capire se ci lascerebbero proseguire oppure no.
Chiedo di nuovo:
“Dove possiamo dormire?”
“C’è un caffè che ha delle stanze, a qualche km da qui”, risponde uno dopo essersi consultato con gli altri. Anche lui indica oltre la sbarra, nell’oscurità.
“Dovrebbe essere ancora aperto, chiude alle 23.”
Guardo l’orologio: sono le 22:15.
“Ma tra quanti km è?”, chiedo per capire se faremmo in tempo.
“Mah ...” - si consulta con gli altri - “... una trentina!”
“Trenta?!?”, esclamo incredulo. Forse ho capito male!
“Sì, una trentina più o meno... Sta vicino alla frontiera.”
“Come la frontiera??”, chiedo sempre più incredulo.
“La frontiera con l’Uzbekistan!”, ora inizia a guardarmi come si guarda un imbecille.
“E quanti km mancano alla frontiera con l’Uzbekistan??”
“Quarantacinque km”, risponde sicuro.
“Quarantacinque km??”, chiedo ormai imbambolato a ripetere come un pappagallo delle notizie del tutto inaspettate.
“Esatto!”
“Ma questo cos’è allora??”
“Un posto di controllo!”, risponde accondiscendente, essendosi detto che ormai la stanchezza mi ha bruciato gli ultimi neuroni.
Sono senza parole. Una doccia fredda del tutto inattesa. Non avevamo capito nulla! Caterina ha fatto la sceneggiata nel posto sbagliato! Il controllo dei documenti, le tasse pagate, i tagliandi, i timbri mi avevano completamente tratto in inganno! E l’oscurità e tutto quello che è successo dopo non mi hanno fatto accorgere del fatto che mancava il lato uzbeco della presunta frontiera.
Arriva un’auto. Alla guida c’è un ragazzo, è con due ragazze. Ora focalizzo meglio, i controlli, quello che accade. Essendo in tre ci mettono qualche minuto. Inizio a parlare con il ragazzo, gli chiedo se conosce il caffè di cui parlano i militari. Annuisce, inizia a spiegarmi, poi una ragazza interviene:
“Ma accompagniamoli noi, no?”
Il ragazzo ci pensa un attimo, poi acconsente:
“Ok, basta che seguiate, vi accompagniamo fino a un certo punto, poi vi spiego la strada, è facile!”
“Va bene, grazie!”
Stanno andando ad una festa, sono tutti eleganti e molto allegri, forse un po’ alticci.
Quello che sembrava un ostacolo insormontabile, ora appare come un normalissimo posto di controllo: possiamo andarcene quando vogliamo. Forse prima sono stati così rigidi perchè hanno visto Caterina in quelle condizioni, l’ambulanza e tutto il resto.
Ci rivestiamo, ripartiamo. La sbarra si alza, liberandoci verso la notte completamente nera.
Subito finiamo su un ponte di metallo. Mi viene in mente il ponte sull’Amu Daria, anche quello percorso di notte, quando arrivai a Khiva nel 2001. Nella notte si intravede un grande specchio d’acqua, forse uno stagno. Ora capisco anche il perchè di tante zanzare. É lungo, percorriamo almeno 200 metri. Io in apprensione su dove metto le ruote, i ragazzi davanti molto più sciolti, rischio di perderli subito. Mi preoccupo perchè ci ritroveremmo in un punto sconosciuto, senza indicazioni e completamente al buio.
Finito il ponte, ricomincia la strada. É sterrata! Piena di buche, rovinata. Passiamo davanti ad un benzinaio, ma devo proseguire, altrimenti perdo la nostra guida.
Dopo qualche minuto arriviamo davanti ad un edificio illuminato. L’auto si ferma, scendono tutti. Mi spiegano come proseguire. Ripartiamo. Ci ritroviamo a vagare nella notte più nera, tra incroci fantasma. Il faro illumina di sfuggita basse abitazioni. Alcune hanno delle finestre illuminate. A parte questi piccoli punti luminosi e il fascio di luce della moto, il resto è un muro di oscurità. Dopo qualche km mi fermo. Calcolo che se continua come negli ultimi km, con la stessa frequenza di benzinai, non andremo tanto lontano. Sono di nuovo a secco. Vorrei tornare al benzinaio visto poco fa, ma ho paura di non saper fare a ritroso tutte le svolte fatte finora e se mi sbaglio sono guai. In giro non c’è nessuno e di cartelli o altri punti di riferimento, nemmeno l’ombra.
Arriva un’auto, si ferma. É il ragazzo di prima. Sta tornando a casa, doveva solo accompagnare le amiche, la festa non gli interessa. Gli spiego il mio problema con la benzina.
“Sì, davanti non ce ne sono altri, solo quello di prima altrimenti un altro verso Farab”, e indica delle luci all’orizzonte. “Non è lontano, se vuoi ti spiego come arrivare.”
Esito, ho davvero paura di perdermi. Mi vede titubare e propone:
“Facciamo così. Voi proseguite, io torno indietro a prendere la benzina e ve la porto fino alla frontiera.”
“Sì, ma tu dove abiti?”
“Più o meno in quella direzione.”
“Quanti km mancano alla frontiera da qui?”
“Una trentina”, risponde dopo averci pensato un attimo.
“Ma così faresti un sacco di km in più!”
“Non è un problema! Ora voi proseguite, svoltate a destra, poi a sinistra ...” si perde in altre indicazioni “...finchè arrivate ad un altro posto di blocco.”
“Come quello di prima?”
“No, molto più piccolo! Superato il posto di blocco girate a sinistra e da lì andate sempre dritto e arrivate alla frontiera.”
Sono senza parole per la sua disponibilità. Apro il baule posteriore, prendo la tanica e gliela dò. Risale in macchina, fa un’inversione a U sgommando e scompare alle nostre spalle, inghiottito dalla notte.
Senza parlare risaliamo in moto. Percorriamo una quindicina di km, che in queste condizioni sembrano infiniti. Sono assalito da mille dubbi: e se non riusciamo più ad incontrarci? Se non ha proprio intenzione di incontrarci? Se finiamo la benzina, come faremo domani? Non mi va di affidarmi così completamente al prossimo, chiunque esso sia, questione di carattere. Mi fermo di lato. Comunico i miei dubbi a Caterina. Decidiamo di aspettarlo qui, dovrebbe passare di qui.
Una volta spento il faro della moto, il buio ed il silenzio diventano assoluti, irreali. Ci lasciamo avvolgere, ognuno perso nei suoi pensieri.
I minuti passano, i dubbi aumentano. E se ha fatto un’altra strada per andare in frontiera? Se non lo incrociamo più e stiamo perdendo inutilmente tempo? Se nel frattempo il benzinaio visto prima ha chiuso?
L’idea di tornare indietro si fa sempre più papabile. Ogni tanto passa un’auto. Non è il nostro amico.
Inizio a fare una specie di conto alla rovescia, cercando di calcolare i suoi tempi:
“Tornando indietro, in 10 minuti sarà arrivato alla stazione di servizio. In cinque minuti ha riempito la tanica. Altri venti minuti e dovrebbe essere qui, ormai dovremmo esserci.”
Decido di spettare ancora 10 minuti, poi torniamo indietro cercando di raggiungere il benzinaio di prima, ormai perso dietro a svolte a incroci dimenticati.
Dopo 20 minuti di calcoli e congetture, un altro faro. É lui! Si stupisce di trovarci così prima del posto di polizia.
“Non volevamo farti fare così tanti km a vuoto per portarci la benzina!”
Con un coltello tagliamo una bottiglia di plastica a mo’ di imbuto. Il liquido rimbomba nel serbatoio praticamente vuoto. 10 litri sono almeno 150 km, ci tolgono da un bell’impiccio!
Rimetto la tanica nel baule, in un gioco a incastro che ogni volta mi fa perdere 10 minuti buoni. Il ragazzo mi guarda con un misto di curiosità e compatimento. Lo ringrazio, non vuole una centesimo per il disturbo. Ci salutiamo, riparte sgommando, scompare nella notte.
Proseguiamo nell’oscurità, ma con il cuore molto più leggero. Mi tornano in mente le parole di ieri notte:
“Cate, guarda bene le stelle, perchè oggi è l’ultimo giorno che viaggiamo di notte!”
Come al solito, ho parlato troppo presto!
Altro posto di polizia. Ovviamente a questo mi fermo.
“Quanto manca alla frontiera?”, chiedo al militare che ci controlla i documenti.
“Meno di 10 km, andate di là ...”, indica la strada a sinistra, “... e arrivate in un attimo, sempre dritto!”
Questione di un minuto e proseguiamo. Le luci in lontananza, un’analisi più attenta della cartina e, soprattutto, il “senno del poi”, mi fanno capire che la sceneggiata della gravidanza si è svolta poco fuori Turkmenabat. Solo ora siamo vicini a Farab!
Siamo nell’oscurità più totale. Mi spiace non vedere il panorama circostante, ma non credo sia diverso da quello visto finora e questa assenza di luci è molto affascinante.
Fermo la moto di lato. Ci sdraiamo sulla sabbia, finissima. É calda. Anche il vento che ci accarezza è tiepido. Naso per aria, ci perdiamo nella volta celeste trafitta da milioni di luminosissime stelle. La Via Lattea si distingue perfettamente. Una scia luminosa che attraversa il cielo da parte a parte, come un tappeto magico cosparso di gemme brillanti.
Al contrario di ieri notte, invasa dai grilli, ora il silenzio è completo. Si sente soltanto il vento che accarezza i rami della rada sterpaglia. Un suono dolce, primordiale.
Il cielo ci regala una stella cadente quasi biblica, con una lunghissima coda di una luce verdastra. Poi un’altra e un’altra ancora. I nostri desideri si perdono nella notte. Si innalzano, cercando di raggiungere le loro ispiratrici nelle pieghe dell’universo.
Per qualche minuto pensiamo di dormire qui, quasi ci addormentiamo. Poi il pensiero della dogana, dei controlli ci risveglia e l’idea di essere così completamente esposti nella notte ci fa rialzare, molto a malincuore, per compiere l’ultimo sforzo e arrivare alla fatidica frontiera, sperando nel tanto citato albergo. Le recenti esperienze non ci fanno presagire nulla di buono, ma almeno avremo un tetto sulla testa.
Quasi subito una fila di TIR spenti, parcheggiati di lato, annuncia la dogana.
Iniziamo a distinguere delle luci all’orizzonte. Dopo qualche km superiamo delle baracche sulla destra e arriviamo ad un alto cancello protetto da filo spinato, che blocca completamente la strada.
Questa sì che è la frontiera! Non saremmo mai arrivati in tempo, impossibile!
Un ragazzo in uniforme, al di là della grata, ci osserva in silenzio.
“Salve! La dogana è chiusa, giusto?”, chiedo tanto per rompere il ghiaccio.
“Sì, riapre domani mattina alle 8.”
“Purtroppo i nostri visti scadono oggi...”
“Ah!” esclama afferrando il telefono. Non so chi chiama, poi chiude e ci rassicura: “Non preoccupatevi, domani pagherete solo un po’ di multa!”, ci dice quasi ridendo in un russo molto stentato.
Va bè, ormai non possiamo farci nulla. Sono le 23:56. Se non altro ci siamo presentati prima di mezzanotte, possiamo sempre dire che non sapevamo (ed è vero!) che la dogana chiudeva alle 18 e che pensavamo di fare ancora in tempo.
Saluto il ragazzo che rientra nel suo gabbiotto. Torniamo indietro di qualche metro. Sistemo la moto tra 2 TIR: in confronto a loro sembra un triciclo! Supero il muro di camion. Ci sono delle baracche, tipo container. Più in basso ci sono degli alberi e in mezzo alcuni tipici letti asiatici di legno dove stanno dormendo delle persone, sdraiate sui tappeti.
É questo l’“albergo”! Chiedo ad una signora di mezza età che sembra essere il capo:
“Siamo in due, possiamo dormire?”
“Certo! Fuori o dentro?”
“Dentro dove?”

 

Verso Farab

 

L’ennesimo Hilton
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“Vieni, ti faccio vedere”, mi dice entrando in una baracca. Accende la luce. Anche qui un letto asiatico, in realtà più simile ad un pancaccio, con un’imbottitura striminzita, stretta e sottile e qualche coperta.
L’idea di star chiuso qui dentro e il ricordo ancora fresco e intenso della stellata di poco fa mi fanno dire:
“Mah, preferirei fuori, se possibile!”
La signora mi squadra e sentenzia:
“No, meglio dentro, fuori fa freddo!”
Non capisco, fa caldo, ma mi adeguo, sono esausto dalla giornata.
“Va bene!”
Vado a chiamare Caterina, smontiamo i bagagli, sistemiamo la roba in camera. Che poi non può definirsi camera, visto che la porta non c’è, si chiude solo il container vero e proprio. Anche le finestre non si possono chiudere, restano spalancate verso gli alberi che si intravedono nell’oscurità, illuminati debolmente dalle nostre stesse luci.
Dopo una decina di minuti sentiamo delle voci. Entrano due uomini che accendono la luce principale, vengono dalla nostra parte a prendere una giacca appesa a un gancio sul muro e si sistemano nella camera a fianco. Dopo cinque minuti regna di nuovo il silenzio. Ci infiliamo nei sacchi lenzuolo. É mezzanotte e mezza, di una giornata lunghissima.

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Verso Farab

 

Sonno profondo
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Verso Farab

 

Bevitori accaniti
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15/08/2007 - “Finalmente liberi in Uzbekistan!”
Mi sveglio alle 6. Il freddo è pungente, la luce è già intensa. Senza alzarmi prendo una delle coperte che ci ha lasciato la signora ieri notte e la sistemo sopra Caterina, raggomitolata per non disperdere il calore. Ne sistemo una anche sopra di me. Prendo qualche appunto, richiudo gli occhi.
Alle 7:20 mi sveglio definitivamente. Rimango sdraiato a riflettere un po’ sulla situazione, sul viaggio, sui giorni passati e quelli che ci aspettano. Realizzo che tra una settimana c’è l’aereo. Mi assale un po’ di tristezza, di magone.

 

Verso Farab

 

Il fiume ha l’oro in bocca
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Lascio dormire Caterina ancora un po’, esco in punta di piedi. SORPRESA! Attraverso gli alberi si intravede in tutta la sua maestosità l’Amu Daria! La luce si riflette argentea sull’acqua, rifrangendosi in mille diamanti sfavillanti, inafferrabili. La luce è brillante, calda. L’aria tersa, frizzante. Le fronde degli alberi friniscono lievemente, anch’esse partecipano al grande gioco di Luce ed Energia, le foglie sfarfallano luminose rispondendo agli scherzi degli uccelli.
Quello che ieri notte nell’oscurità ho scambiato per uno stagno, altro non era che l’Amu Daria, il leggendario Oxus dell’antichità.
La signora entra ed esce da uno dei container adibito a bar - ristorante.

 

Verso Farab

 

Cipollata fresca
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“Cosa vuoi da mangiare?”, mi chiede gentile, frettolosa.
“Cosa c’è?”, rilancio.
“Samsa ...” e poi elenca qualche altro piatto tipico centrasiatico, tutti a base di carne di montone e cipolla.
Vedendoli cucinare in quel momento, decido immediatamente per un samsa, una specie di raviolo ripieno.
“Da bere?”
“Tè verde!”, ovvio, che domande.
“Tua moglie che prende?”
“Ora glielo chiedo ...”, dico scappando dentro a svegliare Caterina.
Anche lei tè verde. Ci laviamo il viso in un piccolo lavandino artigianale. L’acqua scende da un piccolo serbatoio di qualche litro posto proprio sopra il rubinetto, in modo da avere pressione grazie alla gravità. Il tutto in mezzo ai letti asiatici, all’ombra rinfrescante e rassicurante dei grandi alberi, a poca distanza dal fiume maestoso. Sono ancora emozionato dalla visione, meraviglioso!
Peccato che tra poco dovremo scontrarci con l’ottusità dei doganieri turkmeni ed affrontare l’“immenso” problema del visto scaduto.
“Signora, dove posso trovare dei soldi uzbechi?”, chiedo già sapendo la risposta.
“Qui, qui ... che soldi hai? Euro, dollari, manat?”
Mi libero di tutti i manat e cambio anche qualche euro. Ora può davvero iniziare l’odissea del visto scaduto.
Ci presentiamo al cancello di ieri. É chiuso, c’è già una lunga fila di persone in attesa. I militari ne fanno entrare un po’ alla volta. Mi avvicino alla grata, faccio un cenno ad un soldato:
“Mi scusi, dovremmo andare in Uzbekistan, ma abbiamo il visto scaduto ...”, gli dico passandogli i passaporti.
Li guarda come se non credesse ai suoi occhi. Sicuramente una bella notizia per le finanze suppongo disastrate di questi tristi funzionari.
Sebbene mi sia rivolto in russo, mi risponde in un inglese stentatissimo:
“Visa problem!” e chiude le braccia a X, a dire che non possiamo passare la frontiera.
“Sì vabbè, chiama il tuo superiore e risolviamo il problema”, gli dico già scocciato per la sceneggiata che ci toccherà fare anche oggi.
Chiama al telefono e sentenzia:
“Dovete aspettare.”
Non avevo dubbi ...
Nel giro di 5 minuti arriva un gigantesco fuoristrada, vetri oscurati. Si ferma sgommando. Scende un panzone con la faccia da mafioso, in divisa bianca. Afferra i due passaporti e fa cenno di farci entrare.
Parcheggio la moto nel piazzale, Ora facciamo la fila sotto la palazzina, fuori dal recinto di metallo verde. Sebbene siano soltanto le 9, il caldo è già intenso, ci contendiamo la poca ombra offerta da un paio d’alberi stentati.
Siccome abbiamo il “visa problem”, i militari ci fanno attendere da una parte, facendo passare tutti gli altri. Sicuramente è per ammorbidire la nostra resistenza. Di sicuro non lascerò un solo centesimo a questi personaggi. Ogni tanto mi faccio sentire, chiedo informazioni al militare che risponde, semplicemente:
“Non lo so, dovete aspettare.”
Entrano prima di noi anche una coppia di ragazzi inglesi, in auto. Poi arrivano anche 2 guide che accompagnano un gruppo di 4 motociclisti italiani: 1 guida ogni 2 persone. Non ci filano molto, sono tutti presi dall’immensa difficoltà di andare dietro alle due guide ...
Sbraito per la terza volta e finalmente scende un militare dal primo piano, che avevo già individuato come il Piano del Potere.
Confabula col militare che, non so perchè, riferisce in turkmeno alla guida degli italiani che, finalmente, sentenzia:
“Dice che sono 100 dollari di multa”
Sorrido a denti stretti ... poi mi viene il dubbio:
“Ma in tutto o a testa?”
La ragazza gira la domanda al militare che risponde e viene tradotto come:
“A testa!”
Scoppio a ridere di gusto! Dico direttamente al militare, in russo, che possono tenerci lì anche tutta la giornata, non mollo un centesimo.
Dopo un’altra mezz’ora perdo la pazienza:
“Senti, fammi parlare col tuo superiore! Ieri siamo arrivati in tempo, prima della mezzanotte, mia moglie è incinta, chiamate il posto di polizia di Turkmenabat!”
Il ragazzo ascolta, poi sparisce. Finalmente scende un funzionario. Riferisco di nuovo la storia: Caterina è incinta, ieri si è sentita male, è arrivata l’ambulanza, la nave dall’Azerbaijan ci ha fatto perdere due giorni. A metà della litania mi interrompe:
“Va bene, vedo cosa si può fare”, dice sparendo di nuovo al primo piano.
Dopo un’altra mezz’ora, un tipo si affaccia dal primo piano. Dà una voce al militare che sorveglia l’ingresso:
“Vai su”, mi ordina.
Caterina fa per muoversi, ma viene fulminata:
“No, solo lui!” Nonostante la lingua diversa, il fucile spianato di traverso chiarisce immediatamente il concetto. Vedo la preoccupazione nei suoi occhi, ma la tranquillizzo:
“Non preoccuparti, contratto la multa il più possibile, se scende almeno a 100 dollari in tutto pago e ce ne andiamo.”
Effettivamente sono riusciti ad ammorbidirci...
Mi fanno entrare in un piccolo ufficio. Aria condizionata al massimo. C’è un altro funzionario (ma quanti sono?) ed un ragazzo con il ruolo di segretario. Si rivolgono entrambi in un buon inglese. Sciorino di nuovo la sfilza di disgrazie accaduteci, mentre il ragazzo prende nota. Quest’ultimo è giovane, simpatico. Peccato che sicuramente si rovinerà crescendo in questo ambiente deformato e alienante.
“Va bene, ma il vostro visto è scaduto ... dobbiamo pur dire qualcosa al Ministero, capisci?”, mi dice pensieroso il funzionario.
Annuisco in silenzio.
“Facciamo così: scrivi una dichiarazione dove racconti tutto quello che è accaduto, poi ci penso io.”
Ancora non capisco come andrà a finire la storia, in ogni caso afferro la penna e mi sfogo. Riempio un intero foglio A4 scrivendo tutto, ma proprio tutto!
“Basta, va bene così!”, esclama ridendo il tipo.
Finisco la frase, metto la data, firmo e gli passo il foglio. Mentre dò i miei dati anagrafici al ragazzo, da mettere in un altro modulo, il funzionario scruta con attenzione il foglio che ho appena scritto. Con mio stupore, credendolo non capace di capire la mia scrittura e soprattutto leggere ’inglese, mi chiede:
“Come sarebbe che non vi hanno esteso il visto?”
“Sì, ad Ashgabat, nell’ufficio quello davanti al monumento di Lenin ...” - annuisce come a dire che ha capito di cosa parlo - “... mi hanno detto che i visti di transito non si possono estendere.”
Disapprova scuotendo il capo, borbottando qualcosa a significare “che imbecilli”. Quindi si possono estendere i visti di transito, come mi avevano detto anche alla frontiera di Turkmenbashi! Se penso a quanto abbiamo rischiato per colpa di un funzionario deficiente, mi monta di nuovo il nervoso.
Finisce di leggere il foglio, poi mi fa firmare e controfirmare altri moduli. Poi con aria grave mi dice:
“Però ...”, ecco, mi dico, ora arriva il momento della multa, sentiamo quanto vuole! “... c’è una sanzione ...”
“Cioè?”
“Eh ... non potete più entrare in Turkmenistan per 6 mesi.”
Faccio veramente fatica a trattenermi dal ridere! Ma chi ci vuole tornare?? Cerco di fare comunque la faccia triste e pentita.
“Mi spiace”, cerca di consolarmi.
“Va bene, purtroppo è andata così”, gli concedo.
Poi sembra ripensarci, consulta un tomo e sentenzia:
“No, per un anno non potete più entrare!”
“Ok, lo terremo a mente ...”
Continua a scapparmi da ridere, mi trattengo a stento. Quando mi vede, Caterina tira un sospiro di sollievo.
“Allora, com’è andata?”, mi chiede ansiosa.
“Eh ... ”, esito con un’espressione grave sul viso, “... purtroppo hanno applicato la penale massima ...”
Aspetta la botta senza dire nulla.
“In pratica ... non possiamo più tornare in Turkmenistan per un anno!!”
La tengo mentre scoppia a ridere e fa gestacci verso la coppia di soldati vicino al primo cancello!
Mancano ancora dei giri in altri uffici. Ancora sono sospettoso e mi aspetto qualcuno che mi chiede dei soldi, ma tutto fila liscio e in poco tempo sono di nuovo fuori.
Solito copione. Non appena saliamo sulla moto e accendo il motore, esce dal nulla un tizio mai visto prima che mi chiede sgarbatamente dei documenti.
Polemicamente gli mollo in mano le decine di foglietti accumulati da quando siamo entrati in questo Paese di matti.
Li scruta attentamente uno per uno, ma non c’è quello che cerca.
“Vieni con me!”, esclama asciutto.
Lo seguo sbuffando, mi hanno veramente stufato.
Mi molla in un altro ufficetto dove incrocio di nuovo gli italiani. Li aiuto traducendo per loro, dal russo e dall’inglese, quello che i militari gli chiedevano. Risolti i 4 signori, è il mio turno.
Anche il tipo, ancora più sgarbato del precedente, con una fretta del diavolo, mi chiede di nuovo un documento misterioso.
Gli rovescio sul tavolo tutta la cartaccia accumulata. Anche lui la spulcia, per fortuna trova un foglietto che fa al caso suo. Mette un timbro, con quello devo andare in un altro ufficio. Si ricomincia il Gioco dell’Oca! Riesco a concludere anche questo giro, torno alla moto.
Torna immediatamente il tipo di prima:
“Ce l’hai adesso il documento?”
“Sì, come no!” e gli mollo di nuovo tutta la cartaccia, vecchia e nuova.
“No, ne serve un altro!”, mi dice aggressivamente.
“Guarda, l’ho lasciato là dentro ...” rispondo indicando l’ufficio di prima, “... puoi trovarlo là dentro se vuoi!”
“Sicuro?”
“Sì!!”
Ancora un po’ sospettoso apre il cancello: SIAMO FUORI!!! Caterina si lancia in pernacchie e gesti dell’ombrello in puro Stile Totò. Tiro un sospiro di sollievo. Alla fine, con tanto di visto scaduto, non abbiamo tirato fuori una lira e ci abbiamo messo tutto sommato poco, poco più di 2 ore. Avranno avuto paura di una denuncia o hanno mostrato umanità di fronte alla gravidanza di Caterina? Sicuramente la sceneggiata di ieri è servita, anche se non mi era sembrato in un primo momento.
Al netto di tutti i fogli e ricevute che ho lasciato nei vari uffici, mi restano in tasca 12 pezzi di carta. SPQT: Sono Pazzi Questi Turkmeni!
Attraversiamo la cancellata dell’Uzbekistan. Disinfettano le ruote della moto facendoci passare in una vasca con dell’acquaccia nera che non so cosa possa salvaguardare.
Entriamo prima in una casupola dove compiliamo una dichiarazione di cosa portiamo, poi il controllo dei passaporti e dei bagagli. Qui ci accoglie un funzionario simpatico al quale raccontiamo, un po’ furbescamente, quanto abbiamo sofferto per entrare e uscire dal Turkmenistan. Per dimostrarci quanto l’Uzbekistan sia diverso e migliore di quei caproni dei turkmeni, compila, timbra e controlla in un lampo. In mezz’ora sbrighiamo tutte le pratiche e siamo per strada. Miracolo!
Il fondo stradale non migliora molto, ma tutto ha un sapore diverso. Il paesaggio al di qua dell’Amu Daria è molto più verdeggiante rispetto al Turkmenistan. Somiglia quasi alle campagne italiane: coltivazioni, case e fattorie sparse, animali. La differenza la fanno le coltivazioni, prevalentemente cotone e tanti altri dettagli: le auto in giro, i carretti tirati dagli animali e ovviamente i tratti mongoli delle persone che incrociamo.

 

 

Verso Bukhara

 

Il Cocomero della Libertà
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Bukhara

 

L’albergo delle
Mille e Una Notte - 1
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Mi fermo al primo venditore di frutta che vedo. All’ombra di un albero poderoso, ci rifugiamo in una piccola costruzione in legno e gustiamo voluttuosamente il Cocomero della Libertà. Dopo giorni di tensione, finalmente torniamo a respirare, la morsa allo stomaco si allenta. Sentiamo di essere arrivati, di poterci rilassare.
Arriviamo a Bukhara rapidamente. Anche il problema della benzina sembra risolto, le aree di servizio sono abbastanza numerose. All’interno della città inizio ad avere i primi flash-back della mia prima visita, nel 2001. Non sembra molto cambiata.

 

 

 

Bukhara

 

L’albergo delle
Mille e Una Notte - 2
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Troviamo l’Hotel Lyabi House che avevo prenotato da Erevan. É in pieno centro, spettacolare! É ricavato all’interno di un’antica abitazione nobiliare, costruita attorno ad un patio piuttosto grande e, caratteristica unica, con un alto colonnato in legno intagliato, decorato e dipinto che ne occupa un intero lato.
La stanza che ci hanno assegnato, al primo piano, è bella, si raggiunge con una scala in legno intagliato. Preferirei però affacciarmi sul patio, forse domani riescono a darcene una allo stesso prezzo.
In camera mi soffermo sullo sfogo allergico che da stamattina ho notato all’interno del braccio destro, sulla delicata pelle del bicipite. Improvvisamente ho un flash: le zanzare di ieri notte!! Con questa nuova consapevolezza, conto 16 punture sul bicipite, 10 sull’avambraccio, 20 sul deltoide. Tutte sul lato destro del corpo. Su quello sinistro ne conto molte di meno, circa un terzo. Evidentemente, essendo mancino, riuscivano a torturarmi con tranquillità a destra, mentre a sinistra avevano più difficoltà.
Pazzesco.
Doccia rigenerante, passeggiata in centro. La piazza Lyabi Hauz è cambiata da come la ricordo io. Non ci sono più i bambini che giocano a tuffarsi dai rami secchi di un grande gelso che si affaccia sulla vasca d’acqua. Sono comparsi molti più ristoranti e bar che affollano le quattro sponde della strana piazza. Per far posto a questi, sono scomparsi quasi tutti i letti dove prima riposavano e giocavano gli anziani. In sintesi, è divenuta molto più commerciale e meno “vissuta”. In ogni caso, soprattutto dopo i giorni appena trascorsi, l’atmosfera che si respira è fantastica, estremamente rilassante.
Ricominciamo ad incrociare gruppi di turisti tra cui, ovviamente, anche degli italiani. Dopo giorni di isolamento, non è molto piacevole ricominciare a sentire la propria lingua. Per certi versi, mi fa quasi sembrare di essere già a casa, non più in viaggio.
Lungo il tragitto per l’Ark, ci ferma Yuldus, una ragazzina sveglissima di 17 anni. Parla molte lingue, tutte imparate sulla strada. Non solo i termini che le servono per vendere la merce del negozio di famiglia (porcella e simili, anche carine), ma va parecchio al di là, riesce a conversare di tutto. Sembra avere le idee chiare, chissà cosa le riserverà il futuro. Di certo, vedendola qui, in questo contesto, quasi mi sembra, paradossalmente, che lei abbia molte più strade aperte di quante ne abbia io.
Arriviamo nella bella piazza dove si affacciano le due medrese e il minareto principale di Bukhara. Sulla soglia della scuola coranica di destra, c’è un signore seduto. Attacca bottone. Quando sente che parlo russo, inizia a parlare a macchinetta, velocissimo. É un insegnante di inglese delle superiori, ha 53 anni. Parliamo del più e del meno, ha un approccio quasi aggressivo nel modo di parlare e di porsi. Arrivano anche due ragazzi esagitati. Urlano, scherzano in modo molto invadente, hanno un modo di fare decisamente antipatico. Non riusciamo a capire di dove sono, dicono australiani, poi canadesi, alla fine confessano: israeliani. Non li conosco, ma dalle ultime due esperienze di questo viaggio, non mi ispirano particolare simpatia.
Il professore ci invita per domani, a casa sua. Mi lascia il numero di telefono, con la promessa che lo richiamerò domattina per metterci d’accordo.
Riprendiamo la passeggiata. Arriviamo all’Ark al tramonto. Non è particolarmente imponente, ma le sue mura e soprattutto la sua storia incutono timore.
Siamo affamati, cerchiamo un ristorante nei dintorni, ma per le abitudini locali è già tardi. Troviamo aperto solo un ristorante non particolarmente invitante. In ogni caso non abbiamo alternative. Di tutto il menù, a quest’ora possono prepararci solo degli shashlik, tanto per cambiare! Questi spiedini di carne costituiscono la dieta quasi esclusiva dell’Asia Centrale. Le prime volte sono gustosi, poi alla decima ... stancano! Ce li servono, come al solito, sepolti da fette di cipolla cruda.
In pochi minuti sbrighiamo l’affaire cena. Usciamo nel buio. C’è un vento fresco, forte che ci fa rabbrividire. Siamo in città, ma pur sempre in mezzo al deserto e le escursioni termiche sono accentuate.
Torniamo pigramente in albergo. Aggiorno il conteggio dei pizzichi: oltre 40 nella sola zona spalla / schiena destra, poi una trentina sul braccio destro e circa un terzo di tutti questi nelle stesse zone, lato sinistro del corpo. Ne ho alcuni anche sulle gambe e sul ginocchio destro. Pazzesco. Mi gratto furiosamente, nonostante cerchi di trattenermi.
Andiamo a letto a mezzanotte, finalmente possiamo rilassarci!

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