Sommario del sito

GreciAlbania 2008

Tragitto ideato per GreciAlbania 2008
Tragitto

Informazioni utili per GreciAlbania 2008
Info utili

Diario di viaggio di GreciAlbania 2008
Diario

Letture consigliate per GreciAlbania 2008
Letture

Soste previste per GreciAlbania 2008
Soste

 Diario di viaggio GreciAlbania 2008

Pagina precedente
Indice

Pagina 1 (di 4)
((I) Partenza, traghetto, (AL) Durazzo, Berat, Apollonia, Vuno)

Pagina successiva
Pagina 2

 
A chi pensa che la Grecia oggi sia un paese senza importanza voglio dire che non potrebbe commettere errore più grande. Oggi come un tempo la Grecia è della massima importanza per chiunque cerchi di trovare sè stesso (...) soprattutto è la soluzione dei mali che ci affliggono.

 
Henry Miller,
tratto da “Il Colosso di Marussi”
edizioni Feltrinelli, 2007

GreciAlbania 2008

Viaggio ...

Prima di tutto riporto il chilometraggio di Nelik!

Contachilometri alla partenza
250.620

Contachilometri all’arrivo
253.525

Chilometri percorsi 2.905

Giornate: 
14 agosto 2008 - “Gli ultimi NON preparativi”
15 agosto 2008 - “Si parte!”
16 agosto 2008 - “Il ricongiungimento”
17 agosto 2008 - “Fuochi d’artificio”

14/08/2008 - “Gli ultimi NON preparativi”
Sono le 16:30 del 14 agosto, le riserve si sciolgono. Prenoto il traghetto per ... domani sera!! Bari - Durazzo. Mai preso dei biglietti con così poco anticipo. Mai programmato di meno una partenza. Ovviamente le cabine sono finite.
Torno a casa. Fino a oggi non ho controllato nemmeno un bullone e non lo farò certo adesso, non ho tempo. Sono consapevole di partire con una moto di 16 anni e oltre 250mila km sulle ruote, ma gira bene, il motore mi parla:
“Sto bene, non preoccuparti!” mi sussurra con la sua voce bassa, regolare. Tranquillizzante.
Vado da Feltrinelli per leggere a scrocco la guida dell’Albania. Ho solo pochi articoli fotocopiati dalle riviste che colleziono, nulla di più. Non sono nemmeno sicuro dei documenti che servono, su Internet non ho trovato risposte chiare, gli enti che ho contattato non hanno mai risposto e pare che le regole siano cambiate recentemente.
Ma amo questa incertezza, mi ci butto a capofitto, ci sguazzo, la cerco, la voglio! In contrasto con il rigido e imbrigliante mondo in cui sono costretto a vivere il 90% della mia vita, delle giornate che si susseguono uguali a sè stesse tra uffici e regole scritte o implicite. Vorrei immergermi nel fiume della casualità lasciandomi trasportare, senza oppormi, guardando il mondo scorrermi intorno con sguardo stupito e giocoso, andando incontro alla gente.
Mi apparto in angolo come ho già fatto tante volte in passato. Guida in mano, la sfoglio con cautela scarabocchiando appunti su un blocchetto, di traverso.
Mi stufo, esco. Riassumo mentalmente la situazione: non ho guide, nè prenotazioni. Idee poche e vaghe.
Ceniamo dai miei, prendo i bauli. D’altronde ... domani si parte! Ancora non me ne rendo conto. Lavorando fino all’ultimo istante, senza mai programmare alcunchè, di fatto il pensiero della vacanza resta laterale, nascosto. Immateriale come un desiderio.
E invece è tutto vero, stiamo per partire un’altra volta. Di nuovo un Paese sconosciuto, istintivamente poco attraente e per questo ... attraente. Un ossimoro mentale, un corto circuito razionale che mi mette in gioco per l’ennesima volta e sfida i miei preconcetti.
L’atmosfera tra me e Caterina non è serena, ci sono molte nuvole su di noi, alcune grandi e soprattutto inattese. La stanchezza degli ultimi mesi non aiuta.
Mi viene in mente un nome per il viaggio: Alba...Via! Buon auspicio di partenza imminente o cattivo presagio di fuga precipitosa?
Torniamo a casa nostra, ma non ho voglia di fare i bagagli. Andiamo a letto comunque tardi, dopo l’1.
Non voglio ammetterlo apertamente con Caterina per non scoraggiarla ulteriormente, ma anch’io ho diverse remore sull’Albania. Purtroppo in Italia si è radicata profondamente una forte accezione negativa. Popolo repulsivo, Paese senza attrattive.
Eppure lotto con me stesso, per combattere anche questo stereotipo. Continuo a ripetermi che il mare dev’essere bello, stretto com’è tra le splendide Grecia e Croazia e la gente non può essere tutta così cattiva come la dipingono i giornali e le televisioni. Mi rendo conto del potere dei mezzi di comunicazione.
Quello che hanno fatto in pochi, in un altro Paese, viene proiettato su tutti, nel loro Paese. La mia è una reazione istintiva, una resistenza innata. E per questo la combatto.
Mi educo, dove per educazione intendo migliorare l’apertura mentale e la neutralità di giudizio. E, soprattutto, nonostante tutto, la curiosità prevale.
Non dico nulla a Caterina e mi addormento, pensando ...

Torna all’indiceTorna all’indiceTorna all’indice

15/08/2008 - “Si parte!”
Mi sveglio poco prima delle 7. Tragica notizia: un’auto contromano sulla tangenziale di Torino uccide un motociclista e un automobilista.
Preparo i bagagli ... il giorno della partenza! Questa sì che è organizzazione! Dopo lo smarrimento (o furto?) del lettore MP3 all’inizio dell’anno, tra Dubai e l’Oman, sono per la prima volta in viaggio senza musica ... Peccato perchè ho molti ricordi legati ad una canzone sentita in viaggio. Paesaggi, sensazioni, colori. Indimenticabile “Sleeping Satellite” di Tasmin Archer in un’ampia vallata bordata di basse montagne rossastre in Marocco o “Where the streets have no name” degli U2, energetica, un urlo di vita gridato nel casco lasciando Figuig e dando un taglio ai primi, difficilissimi giorni, sempre di quel viaggio per me mitico.

 

 

Partenza da Roma

 

Finalmente in sella!!
(129 KB)

 

Finisco i bagagli tardissimo, parto alle 15. Caterina è partita nei giorni scorsi, mi aspetta a Benevento.
É Ferragosto, Roma è una città fantasma, il caldo opprime. Parto senza rendermene conto, tutto troppo in fretta.
L’autostrada mi mette a dura prova, soporifera e rovente. Finalmente Benevento. Mi rifocillo, riprendo fiato. Ripartiamo, tutto sommato carichi nonostante il caldo opprimente e gli interrogativi.
Di nuovo nel forno, fino a Bari. Vedo intorno a me campi pettinati dalla mietitura, bruciati dal caldo.
Bari, finalmente. Restiamo di stucco vedendo tanta gente a dei picnic improvvisati ai lati della strada, nei parcheggi lasciati vuoti dalla gente che è riuscita a partire. Tavoli da campeggio imbanditi, decine di persone a mangiare insieme, in mezzo alla via. É Ferragosto, nonostante tutto.
Arriviamo al porto, mezzo deserto. Ovviamente siamo in ritardo. Non c’è praticamente nessuno alle biglietterie, solo un emigrato albanese che ora lavora a Bergamo e di cui ha preso la parlata e l’arroganza di certa gente, insulta l’omino alla biglietteria aggiungendo alla fine di ogni frase, come un mantra, che lui “ha fretta, lavora, ha 3 bambini” e quindi non può aspettare.
“C’è una cabina libera, per caso?” chiedo senza troppa speranza. Ieri al telefono l’avevano escluso categoricamente.
“Fammi vedere ... sì, una doppia interna, senza bagno!”
“A quanto?”
“Duecentoventisei euro e cinquanta.”
“Ah! Un attimo che chiedo ...” rispondo, tornando al parcheggio dove Caterina sorveglia la moto. Tanto non perdo il posto, sono l’unico affacciato alla lunga fila di sportelli.
Siamo stanchi e la cabina costa 50 euro scarsi più del passaggio ponte. Presa!
Mentre aspetto che stampi i biglietti e nei minuti successivi, mentre cerco la strada verso il molo in quest’ennesimo, incasinato porto, mi torna in mente SamarCaLda, il viaggio dell’anno scorso. Per certi versi mi sembra lontanissimo: le speranze, i posti meravigliosi attraversati, gli incontri e le persone rimaste nel cuore. Per altri versi sembra finito ieri, tutto quello che avrei voluto fare e non ho fatto, i ricordi ancora così vivi.
Breve controllo dei documenti, con poliziotto che ci fa rimettere i caschi anche per fare i 100 metri dalla sbarra alla bocca della nave.
Saliamo. Veloce scambio di SMS con Alberto, partito già da diversi giorni. Ci aspetta a Berat. Sono molto contento di vederlo, gli voglio bene. Zeno purtroppo ha rinunciato all’ultimo momento per ... il solito, maledetto lavoro. Libertà e galera allo stesso tempo.
Chiedo in giro, finalmente scopro a che ora arriverà la nave, visto che ancora lo ignoro. Alle 7 ... no, alle 8! In effetti non sono l’unico a non saperlo.
La cabina è, come mi aspettavo, un loculo. Ritagliata sulle dimensioni del letto a castello, c’è solo uno spazio aggiuntivo a lato: il minimo indispensabile per entrare e salire sul letto superiore.
Siamo sopra i garage, il motore della nave è vicino, assordante. Fortunatamente è solo in fase di manovra e in pochi minuti si fa calmo, le vibrazioni si spengono.
Cerco il bagno. Quelli per gli uomini sono chiusi a chiave. Motivo? Mistero! Salgo con altri due alla reception.
“Scendo subito ad aprirli!” risponde gentile un ufficiale, sparendo dietro un cliente dei “piani alti”. Non lo vedrò più. Dopo alcuni minuti di attesa mi infilo in quello delle donne e scappo a letto, a mezzanotte.

Torna all’indiceTorna all’indiceTorna all’indice

16/08/2008 - “Il ricongiungimento”
Mi sveglio alle 4:30, non capisco dove sono. Il rombo sordo e regolare del motore mi riporta in un attimo nella nave, in mezzo al mare. Cerco di rilassarmi, chiudo di nuovo gli occhi.
Mi sveglio definitivamente alle 7, strappato al sonno dagli annunci sparati dall’altoparlante, ad altissimo volume, dritti nelle orecchie. Le vibrazioni fanno tremare tutto, tintinnii sopra e sotto di noi. Fuori dalla porta le urla acute di alcuni bambini affettano l’aria come seghe elettriche.
Dai tanti traghetti presi capisco, dalla vibrazione così intensa, che stiamo procedendo in retromarcia. Siamo arrivati, ci affrettiamo a prepararci e quindi ... tolgo i tappi dalle orecchie. Nonostante mi prepari al colpo, i suoni mi aggrediscono ancora più ruvidi, crudi, taglienti.
La mente è ancora presa da mille pensieri quotidiani: fortunamente il lavoro quasi non vi entra, mentre invece mi perdo molto più volentieri in quelli piacevoli sulla casa nuova e i mobili da comprare, immaginando come vorrei diventasse.
Cerco di concentrarmi sul viaggio, intanto sul problema immediato di come scavallettare la moto, che i marinai di ieri mi hanno fatto parcheggiare in una posizione impossibile: in contropendenza su una discesa ripidissima in metallo scivoloso come olio. E poi l’interrogativo principale: come sarà l’Albania? Ci deluderà? Avrà davvero qualcosa di interessante da vedere? E la gente??
Sono le 7:35, la nave è ferma da mezz’ora nel porto di Durazzo. Di scenderne nemmeno a parlarne, saranno i soliti controlli doganali.
Finalmente si scende, anzi, letteralmente si scappa dalla nave. Le auto si sparpagliano disordinatamente nell’ampio piazzale, come tante formiche in fuga, salvo poi concentrarsi nuovamente nelle poche file corrispondenti ai pochi gabbiotti con doganiere annesso.
A fianco a noi ci sono sia auto più o meno normali, utilitarie, sia SUV grandi come furgoni con dentro facce o da coltelli o da coatti all’ennesima potenza. Questo quando riusciamo a vederli ossia le poche volte che non hanno i vetri oscurati. Bene. All’unisono Caterina ed io ci scambiamo uno sguardo alquanto perplesso.
Nell’attesa guardiamo le case a ridosso del porto. Malmesse, col cemento scoperto, scrostate come ferite fresche, ma di fresco non hanno proprio nulla.
Alcuni automobilisti ci invitano a superare, tanto sanno che i controlli per gli italiani, soprattutto se turisti, sono veloci. Turisti? A parte noi, non ne vedo altri.
Arrivo allo sportellino. Caterina era già scesa, mi precede. Poi tocca a me. Scendo e allungo i documenti nella solita finestrella stretta e bassa, che ti obbliga a genufletterti davanti all’autorità.
“Come ti chiami?”, mi fa in perfetto italiano.
[ufff...] “Fabio”, capisco subito dove vuole andare a parare.
“E dov’è Giancarlo?”, mi chiede con un sorriso a metà tra il sarcastico e l’annoiato.
“É mio padre, la moto è intestata a lui”, rispondo senza fare facili battute sul dove si trova davvero.
“Dammi la delega”, mi chiede quasi scocciato, in un soffio accaldato.
“Delega?!”, chiedo, iniziando per la miliardesima volta la solita pantomima già recitata da quasi quindici anni in infiniti posti di blocco e frontiere di decine di Paesi.
Nella mia mente scorrono in sequenza le battute “La delega è obbligatoria!”, “Ma io non lo sapevo!” accompagnato da uno sguardo insieme spaventato e lacrimevole e, le volte che la guardia ha la faccia da infame, anche un po’ ebete; “Non mi interessa, tu torni indietro, ragazzo!”; “Ma la prego, è mio padre, l’indirizzo è lo stesso, voglio davvero visitare il vostro splendido paese” e qui di solito finisco le frasi e, se il funzionario insiste, riprendo a ripeterle più o meno identiche.
Anche stavolta non si smentisce, solo che mi tronca a metà dell’esibizione con un secco:
“Va bene, vai!”, gettandomi irritato i documenti al di là del vetro.
Ok, liberi anche stavolta! Caterina mi lascia uno sguardo a dire “Sei sempre il solito, ma fallo ’sto benedetto passaggio di proprietà!”.
Ok, siamo liberi, il porto sembra finire dopo un cancello enorme, spalancato (non sembra nemmeno che possa chiudersi, un giorno) e sgarrupato. Fuori le auto corrono disordinate. Sembrerebbe davvero finita, ma ho letto ovunque che serve l’assicurazione supplementare ed in effetti la sigla AL è chiaramente sbarrata sulla Carta Verde.
Chiedo dove si trova l’ufficio e mi viene indicata una porta in cima ad una stretta e malferma scala aggrappata sul fianco di un palazzo, senza altre aperture. Mi rifiuto di credere che sia quella. Chiedo ad un’altra persona, ma non ci capiamo.
Bene.
Se l’assicurazione è obbligatoria, arriverà il momento in cui sarò, appunto, obbligato a farla.
Metto in moto e partiamo. Appena girata la curva vedo una serie di padiglioni. L’assicurazione!
Sto ancora accostando quando veniamo circondati da alcuni nomadi talmente sporchi, laceri e malmessi da far sembrare quelli nelle nostre città dei signori. Non vorrei lasciare Caterina da sola, ma non vedo alternative. Scappo alle baracche, un paio mi seguono. Faccio l’assicurazione per due settimane, costa 15 euro. Intanto la galleria degli orrori si moltiplica, persone con malformazioni varie e drammaticamente lacere mi circondano di nuovo. La paura che allunghino le mani è tanta. Mi spiace per la mia reazione, ma mi chiudo a riccio stringendo portafogli, documenti e fogli vari al petto e torno correndo alla moto.
Siamo di nuovo circondati, su tutti i lati. Zampetto per fare retromarcia, accendo, ingrano la marcia, via! Fino al grande arco che funge da ingresso la strada è tappezzata da altri mendicanti e menomati.
Questo episodio iniziale ci toglie la parola per un po’. Penso all’India, di come dev’essere e della poca voglia che ho, al momento, di assistere a scene così crude e drammatiche.
Imbocco sovrappensiero una strada a 4 corsie. Sbaglio dopo pochi metri, inverto. Proseguo verso Tirana, aspettando un bivio verso destra. Ne passo almeno un paio, grandi. Proseguo per capire quello che avrei già dovuto sapere e cioè che non ci sono cartelli stradali. Non almeno quelli che mi servono. Nel caos più totale inverto la marcia. Lascio per un attimo la 4 corsie e mi immergo in vicoli ingombri di bancarelle, carretti, animali, persone che sciamano in ogni direzione, motorini zig-zaganti e auto strombazzanti. Non proprio rilassante.
Torno sulla strada grande, arrivo a quello che avevo già intuito prima dovesse essere il mio bivio, ma da questo lato della strada non c’è lo svincolo. Risolvo tagliando da un pezzo sterrato, prendendo spunto da altre auto che fanno la stessa manovra.
Il traffico è intenso, caotico, fermo ma al momento stesso mobilissimo. Ho i riflessi al massimo. Inizio a guidare peggio di loro, come a Roma quando in inverno piove a dirotto, le strade sono allagate ed è l’ora di punta sul Lungotevere bloccato da degli autobus di traverso. Praticamente, l’inferno fatto ingorgo.
Caterina dietro si guarda intorno e ogni tanto mi riporta le brutture che la stupiscono in un crescendo di bruttezza. Scheletri di palazzi mai finiti; altri finiti, ma ancora scheletrici, altri come calati dall’alto in una piazzola polverosa e arida. Sembrano scatole gettate alla rinfusa.
Finalmente usciamo dal caos di Durazzo. Km lunghissimi, il paesaggio è insignificante, una campagna giallognola, punteggiata da un’acne eruttiva di capannoni, casacce e baracche, lambite dal solito flusso di carretti trainati da asini, auto malconce e stridenti sull’asfalto liso, motorini puzzolenti di denso fumo blu.
E soprattutto invasa dalla spazzatura. Ovunque variopinti sacchetti pieni o esplosi in piccole cascate di rifiuti, latte e lattine, bottiglie ammucchiate, pezzi di plastica, rottami arrugginiti e informi, mobili sfondati, assi di legno spezzate.
Per fortuna non fa troppo caldo.
Deviamo verso Berat e, come capita un po’ ovunque, più la strada rimpicciolisce, più il paesaggio diventa interessante.
Siamo ancora lontani dal poter ammirare una bella campagna, ma iniziamo a tirare un sospiro di sollievo e a rilassarci.
Ci fermiamo in uno spiazzo, ovviamente invaso dalla spazzatura e da rottami d’auto, compresa la carcassa di un camion col motore cannibalizzato di tutti i pezzi in qualche modo riciclabili. Le canne dei cilindri mi fissano come vuote orbite di un teschio defunto da tempo.
Dall’altro lato della strada un anziano contadino gira premuroso e attento intorno alle sue serre. Ci guardiamo attraverso la rete del suo campo. Ci fa cenno di avvicinarci. Sorridiamo e facciamo di no col capo e le mani, ma lui insiste.
Lascio a malincuore la moto carica, con la borsa da serbatoio coi documenti, i soldi, la macchina fotografica e tanti altri beni preziosi, ma in fondo è per pochi metri.
Attraversiamo, scambiamo due battute, lo stretto necessario per capire che lui non parla italiano e che noi, come già sospettavo, non parliamo un accidenti di albanese. Provo col russo: peggio che andar di notte.
Sempre sorridendo e con ampi cenni di invito, apre il cancello. Entriamo. Vuole farci vedere le serre, sono il suo orgoglio. Forse pomodori, forse altro. Sono piene di pianticelle, spero per lui tutto il meglio possibile.
Il pensiero della moto, ormai completamente fuori dalla vista, mi assilla. Lui capisce e mi fa cenno di star tranquillo, che c’è lui. Ma se sta con noi, mi chiedo, come fa a garantire? Paranoie da italiano medio all’estero...
Mi porta anche sotto i susini carichi di frutti, me ne offre un paio ma sono ancora dure. In ogni caso mi profondo in ringraziamenti, proviamo a capire qualcosa di tutto quello che imperterrito continua a raccontarci, ma è davvero impossibile.
Di sicuro però capiamo che ci sono persone molto accoglienti e questo ci solleva. Torna il buonumore.
Ripartiamo. Avvistiamo i primi bunker, da tutti descritti come onnipresenti, quasi da doverci camminare sopra come su una sterminata serie di gobbe. Ce ne sono, ma non vediamo l’invasione. Di sicuro, ma questo non mi stupisce, sono buttati a casaccio nei campi, a mo’ di sementi immani e sterili.
In un paesino vedo un cambiavalute. Decido di prendere un po’ di Lek, visto che non ho voluto cambiare al porto, sospettando come al solito dei tassi svantaggiosi. Per 150 euro mi danno 18mila Lek [1 € = 120 Lek]. Ovviamente non capisco se mi hanno fregato oppure no, ma dai cambi che avevo visto su Internet prima di partire direi che più o meno ci siamo.
Arriviamo a Berat, annunciata dalle case via via più frequenti. Nel frattempo è arrivato un sms di Alberto, che dice di aver prenotato anche per noi un albergo proprio sotto al castello, il Mangalem.
Chiedo a un benzinaio, che indica una svolta a sinistra, poco oltre. Pago e senza capire gli dò una cifra enorme, 10 volte tanto. Caterina esclama:
“Ma quanto costa la benzina?!”, con una espressione da Profondo Rosso dipinta in viso.
Lui mi guarda ridendo e mi restituisce quasi tutto, tenendo il giusto. Menomale! [Senza piombo = 158/162 Lek/litro]
Seguo l’indicazione del benzinaio che ormai gode della mia fiducia incondizionata e mi inerpico sulla stradina, rimbalzando da una buca all’altra. Slogandomi la cervice guardo il nido d’aquila che ci sovrasta, in cima al quale è appollaiato il castello. Capisco che ci stiamo arrampicando là. Mi rassegno e scalo un paio di marce.
Arriviamo quasi in cima, in un piazzale da dove parte un sentiero pedonale verso il portone del castello, peraltro bello e molto ben conservato. Attorno, il nulla: una bancarella che vende acqua e snack, un muretto con panorama sulla città sottostante, altre colline. Chiedo al bar ambulante dove si trova il Mangalem. Indica il precipizio, in fondo alla pista nera che scende verticale dall’altro lato rispetto a quello da cui siamo arrivati. Bene.
Sono stanco, ho voglia di buttarmi su un letto, ingrano la marcia e inizio la discesa senza pensarci. La strada è lastricata di pietra bianca, lucida. Mi accorgo troppo tardi che non ha il minimo attrito, è impossibile tornare indietro. Le ruote slittano da tutte le parti. Vado verso il basso, senza possibilità di oppormi. Caterina si spaventa, vuole scendere. Ho paura a fermarmi, siamo col muso puntato a valle, l’angolo formato tra la discesa e le case che la costeggiano è notevole.
Non riesco a fermarmi. Freno dietro, la ruota posteriore slitta. Lentamente, inesorabilmente, la moto va fuori asse. Scivolo di traverso verso valle: slitta la ruota davanti, quella dietro e le due scarpe dei miei piedi poggiati a terra, stile papera.
Così storto, però, a mò di spazzaneve, riesco a fermarmi. Caterina scende all’istante. Rischia di cadere camminando: scivolano anche le scarpe!!
Prendo la decisione tipica dei momenti difficili: affronto la situazione e se devo cadere, cado e amen! Mi raddrizzo, tengo il freno posteriore costantemente tirato, il motore è spento per evitare i colpi che comunque mi spingerebbe in avanti e lascio leggermente la frizione per frenare ulteriormente la ruota, dando più trazione possibile.
Metro dopo metro slitto a valle. Come sulle piste da sci, anche qui c’è un “muro”, un tratto ancora più ripido del resto.
Basta, mi decido a mollare gli ormeggi, spero che l’inerzia mi dia la direzionalità sufficiente per non rotolare a valle. Come una palla sospesa e poi lasciata nel vuoto, acquisto velocità all’istante. Supero il muro, mi riattacco al freno posteriore, la ripidezza lentamente diminuisce. Ce l’ho fatta!!
Guardo in alto, verso Caterina che scende scivolando e saltellando verso di me.
L’albergo è molto carino, dall’aria calda e familiare, tanti particolari in legno e l’aspetto vissuto.
La moto di Alberto non c’è. Entro, mi presento come l’amico dell’italiano. Il ragazzo capisce al volo e dice:
“Sì, verrà più tardi.”
“In che senso? Non dorme qui?”
“No, ieri eravamo al completo, ha prenotato per oggi!”
Entro nella camera, non troppo grande, col bagno “inventato” in un angolo, con pareti di plastica rigida ed una intera parete di finestre, quelle bellissime, caratteristiche di questa cittadina.
Conosciamo un ragazzo che guida un gruppo di francesi. Vengono da Tirana, proseguiranno verso sud. Parla perfettamente italiano, come tanti da queste parti. Ci dice che a Tirana ha un ostello piuttosto famoso ed uno dei suoi colleghi ne ha appena aperto un altro sulla costa a Sud, dove stiamo andando. Prendo i riferimenti.
Mentre sto ringraziando e salutando, sento Alberto e Lucia che arrivano. Che bello! Siamo riuniti, sono contento di rivederli.
Ci mettiamo sulla grande terrazza a fare colazione, anche se ormai sarebbe il caso di pensare al pranzo. Birra e chiacchiere.

 

 

Berat

 

Distesa di finestre
(109 KB)

 

Nessuno ha voglia di stare in albergo, quindi usciamo in esplorazione. Poco sotto l’albergo ci sono alcune rovine immagino di un monastero o una chiesa, poi una moschea e un basso edificio in pietra e legno. Ci sovrasta una bassa collina con case, sempre in pietra e legno, abbellite dalle tipiche, ampie finestre.
Gironzoliamo intorno alla moschea. Vedo un signore che esce da un edificio a fianco, gli chiedo se si può visitare. Naturalmente becco l’unico da queste parti che non parla italiano, ma capisce al volo e ci dice di attendere. Rientra a prendere le chiavi, apre la moschea per noi! É piccolina, ma ben tenuta, molto luminosa. Dall’esterno ci vedono dei ragazzini che arrivano al volo. Il più intraprendente vuole sfoggiare il suo italiano e ci fa brevemente da guida. Ci indica la parte riservata alle donne, poi dove si va a fare le abluzioni e qualche altra curiosità. Ringraziamo, usciamo.
Il signore, gentilissimo, vuole portarci anche nel basso edificio che sta subito di fronte. Se fosse una struttura cristiana, sembrebbero le celle dei monaci.

 

Berat

 

Città di pietra (scivolosa)
(150 KB)

Purtroppo capiamo poco e la visita finisce in fretta, con ampi sorrisi e ringraziamenti. Torniamo sulla strada principale, prendiamo della frutta che andiamo a mangiare su una panchina all’ombra di alberi magnifici, in un piccolo sentiero. Tutto è in pietra: il viottolo, i muretti che lo delimitano, le strutture della casupole basse che vi si affacciano. Molto bello, una pace incredibile. Durazzo è lontana anni luce. Per fortuna.
Ci rilassiamo all’ombra mangiando la frutta. Il tempo rallenta, ma resta l’impazienza di visitare il resto della città.
A due passi da dove ci siamo sistemati c’è il Museo Etnografico, ricavato all’interno di una casa tradizionale. Riapre alle 16. Il custode arriva parecchio prima, ma è molto ligio all’orologio il che suona strano qui, ma resiste fino all’ultimo istante. Anzi, apre anche qualche minuto in ritardo.

 

 

Berat

 

Sedile peloso
(111 KB)

 

Siamo gli unici visitatori. L’abitazione è immensa, tutta in pietra e legno ovviamente. All’esterno un bellissimo giardino pieno di fiori e decorato con i classici strumenti dell’agricoltura di un tempo. All’interno alcune bacheche con i vestiti tradizionali, e strumenti di uso quotidiano. Usciamo sulla terrazza del primo piano. Immensa, ha una specie di piattaforma in legno, quadrata, dove la gente si sedeva tutta intorno al tavolino, al centro. I sedili bassissimi, coperti da una specie di tappeto a pelo lungo (che fa venire l’orticaria e un caldo spaventoso solo a guardarlo) fanno venire in mente le abitudini orientali.
Visitiamo anche l’interno, con la sala degli ospiti e le sue piccole finestre da dove le donne dovevano guardare per capire se serviva o mancava qualcosa, poi la cucina con l’immenso camino e qualche altro ambiente.
Usciamo. Caterina purtroppo ha dei crampi molto forti, decidiamo di tornare in albergo, continuando a pattinare sulla scivolosissima “pietra albanese”. Con Alberto e Lucia ci diamo un appuntamento un paio d’ore dopo, per visitare il castello al tramonto.
Stavolta non saliamo dalla strada con l’acciottolato maledetto, ma facciamo il giro largo. Lasciamo i caschi in albergo, finalmente liberi.
Passiamo da sotto, stretti tra il fiume, gli alberi che lo incorniciano e la collina ripida che sovrasta la strada. Torniamo al piazzale di stamattina, parcheggiamo e ci inerpichiamo sulla salitella che conduce all’ingresso, di nuovo in pietra saponata.
Le mura dall’esterno sono quasi integre. All’interno si capisce che sono rimaste sono quelle. Grandi spazi più o meno erbosi, pochi edifici, tranne nella parte più orientale, dove ci sono piccole case che sembrano abitate da gente comune, con orticello e tutto.
Il panorama sulla città sottostante è impietoso. Siamo sollevati, a volo d’uccello, sulle brutture dell’uomo moderno, ammassi incoerenti di orribili palazzoni.

 

Berat

 

Antico splendore e moderno orrore
(96 KB)

Il fiume, come nastro illuminato dal sole morente, serpeggia nella pianura fino a sparire all’orizzonte, come a fuggire da quello scempio.
Sul fianco della collina una chiesa in mattoni, stupenda! Ricorda la Cattolica di Stilo, in Calabria.
Meglio farsi prendere dall’atmosfera magica e ferma da secoli che si vive qui, avvolti dalla luce calda del tramonto, accarezzati dal tepore di fine giornata.
Incontriamo Michele, da Milano, venuto a trovare degli amici albanesi. Viaggia da solo, zaino in spalla.
Riusciamo a visitare il Museo di Onufri, un pittore locale di qualche secolo fa. In realtà scopriamo che il museo raccoglie opere sia del padre che del figlio. É evidente che l’abilità pittorica non si tramanda tra le generazioni. Non che quest’ultimo sia un incapace, ma riusciamo a capire al volo, anche da lontano, i quadri e le icone dipinte dal padre e quelle, meno brillanti e precise, del figlio. Il nucleo centrale del museo è una cappella ortodossa. La ragazza che ci guida ci conferma che è ancora utilizzata, in particolare durante la Pasqua ortodossa la cui celebrazione dura parecchie ore. L’iconostasi è splendida, magica. Di fronte, dei candelabri pendono dal soffitto, ma invece di pezzi di cera alloggiano delle immense uova di struzzo.
“Per scacciare i topi!”, ci spiega con fare materno la guida, con l’espressione a dire “ma devo proprio spiegarvi tutto, anche le ovvietà, eh!”
Ci spiega anche che in città convivono pacificamente quattro gruppi religiosi: i cattolici, gli ortodossi, i musulmani ed un’altra setta di cui non capisco il nome. Dovremmo indubbiamente imparare da loro e da tutti i Paesi dove questo accade.
Poi accenna alla Rivoluzione Culturale di alcuni decenni fa:
“Tutta colpa loro!”, accusa la ragazza, accusando non si sa bene chi.
Questo l’ho osservato già tante volte: il rifiuto totale di quanto accaduto interpretandolo come qualcosa piovuto dal cielo, come se non fosse stato voluto da nessuno, nessuno degli abitanti, quando comunque, almeno agli inizi o dopo determinati eventi, quello socialista e comunista era un obiettivo condiviso e desiderato. Che poi ha preso tutt’altra piega, ma fare i conti con la Storia ed il proprio passato secondo me dovrebbe prevedere un’analisi completa di quanto accaduto e non il suo rifiuto totale. Ma in effetti nemmeno gli italiani hanno mai veramente fatto i conti col proprio passato. Non almeno come i tedeschi, ad esempio, dove il periodo della Seconda Guerra Mondiale è entrato nella coscienza collettiva, sviscerato e continuamente ricordato.
Torniamo in albergo dove avevamo ordinato la cena, che ci viene servita sulla terrazza di stamattina. Alberto decanta il vino del locale, assaggiato il giorno prima quando era venuto a prenotare anche per noi:

 

 

Berat

 

Minareto multicolor
(43 KB)

 

“Niente male, assaggialo!”, mi invita entusiasta.
Lo ordiniamo, ma sembra poco più che aceto. La sua frase entra immediatamente negli aneddoti che ci racconteremo nei prossimi anni.
All’improvviso il canto delicato del muezzin ci accarezza come brezza d’Oriente. La notte è scesa, in lontananza iniziano i festeggiamenti di un matrimonio.
Caterina ed io ci addentriamo nei vicoli deserti del centro storico ammirando un’eclissi parziale di luna.
É mezzanotte, andiamo a dormire.

Torna all’indiceTorna all’indiceTorna all’indice

17/08/2008 - “Fuochi d’artificio”
Ho la sensazione di essermi rigirato tutta la notte. Alle 7:15 getto la spugna e mi alzo.
Gli altri ovviamente e giustamente dormono. Visto che è prevista la partenza immediata appena svegli, decido di fare un giro rapido nella parte di città vecchia che si stende dall’altra parte del fiume.

 

Berat

 

Grande pesca a Berat!
(134 KB)

L’aria è fresca, il cielo brillante. Attraverso il ponte pedonale dalla grande arcata simile all’immagine resa famosa dalle Brooklin. Sotto, sul greto, alcune persone pescano, concorrenti anche se separate da pochi metri. Non so bene dove andare, quindi ogni posto va bene. Mi lascio incuriosire da una scalinata in pietra che si inerpica sul fianco della collina. É fiancheggiata da siepi ben tenute e fiorite. Finisce in una piccola chiesa con annesso edificio. Immagino sia un monastero.
Mi affaccio nella chiesa. Un vecchietto curvo dall’età pulisce con uno spolverino le icone. Appena mi vede quasi mi corre incontro.
“Italiano?”, mi chiede in un soffio.
“Sì”, rispondo eccitato dall’idea di una visita guidata in solitaria.
Si gira ed inizia a illustrarmi in albanese stretto il significato delle icone. Ovviamente è incomprensibile, ma mi diverte e lo lascio fare. Si affanna, saltella in un claudicante balletto da un quadro all’altro, si mangia le parole che non capisco.
Poi l’inatteso (per la mia ingenuità): senza neanche una parola fa il gesto universale per chiedere soldi, sfregando pollice e indice.
Un po’ perplesso gli allungo 100 Lek, quello si gira senza neanche una parola o cenno di saluto e riprende a spolverare.
Bè, esperienza ben poco mistica. E l’interno della chiesa è anche bruttino, nel suo anonimo candore.
Mi addentro nei vicoli, splendidi. Bitorzoluti di selciato secolare, si snodano tra la collina e il fiume, ogni tanto riescono a prendere la rincorsa e arrampicarsi verso l’alto, ma riescono a fare pochi metri, poi si chiudono arrendendosi alla roccia viva.
Le case sono quelle tradizionali, con le facciate aperte in ampie finestre, incorniciate da telai in legno intagliato, come le porte più antiche, che spesso sono anche decorate. Quelle più antiche o più nobili hanno anche una specie di frontone decorato da un’onda di legno e sotto l’anno di costruzione e a volte il nome della famiglia.
La temperatura è splendida, passeggio tra fiori e profumo di biancheria stesa.
Una porta aperta su una ripida scalinata in discesa mi invita ad esplorare. Il tempo di pensarci che arrivano canti sacri dal basso. Scendo, trovo un’altra chiesa. Stanno celebrando messa, sono le 8 e qualche minuto. La porta centrale dell’iconostasi è aperta, il prete entra ed esce a brevi intervalli, cantando con voce baritonale e ipnotica. Assiste una decina di fedeli, tutti molto anziani.
Esco, risalgo e proseguo il viottolo che piega di nuovo verso il fiume. Attraverso su un altro ponte, questo antico, in pietra. Passo a fianco di un paio di offine, alcune bancarelle, altri negozietti aperti, nonostante sia domenica.
Torno sulla sponda del castello, proseguo la passeggiata.

 

 

Berat

 

Telefono per l’aldilà
(108 KB)

 

La strada si allarga da una parte in un piccolo giardino pubblico, ben tenuto e dall’altra in un mausoleo di chiara fattura socialista che naturalmente mi attira. Una scalinata che dà su una spianata, alte colonne di marmo, aiuole a delimitare. É un cimitero di guerra, vittime della Seconda Guerra Mondiale. Le tombe sono affiancate le une alle altre, tutte uguali nella loro semplicità: un sepolcro bianco, due lapidi anch’esse bianche: una con il nome, senza nemmeno la foto ed una più grande, con una stella rossa. É in rovina, come tutto, del resto.
Il guardiano è un anziano che mi gira un po’ intorno, mi saluta e poi rientra nella sua baracca minuscola ma arredata da cima a fondo. Penso che viva lì, a fianco del cimitero. Ma non ha più nulla del cimitero, della sua sacralità: sembra solo un luogo abbandonato, come una fontana spenta.
Torno sulla strada, proseguo ancora, altro monumento comunista nel parco che ospita altre sculture curiose, tra cui un monumento a forma di pianta, naturalmente verde. Mi rendo conto improvvisamente della passione degli albanesi per le piante e soprattutto i fiori finti, li ho visti ovunque tra ieri e oggi.
Inizio a tornare. Sul lungofiume sfreccia un lungo corteo matrimoniale strombazzante: sono le 8:30!
Arrivo fino all’altro spicchio di borgo antico proprio alle spalle del nostro albergo. Mi addentro. Qui ci sono le moschee. Sotto una di queste bruca placido un cavallo.
Arrivo in albergo puntuale con la sveglia, puntata alle 8:45. Colazione sulla terrazza: uova fritte in camicia, pane burro e marmellata.
Prima di partire decidiamo di fare un ultimo giro. Andiamo nell’unica parte che ancora non ho esplorato, a sinistra rispetto all’albergo.
Altri caroselli di spose, caos di traffico. Una chiesa ortodossa è stata costruita da poco praticamente a fianco di una moschea.
Riusciamo a partire tardi, alle 11. La strada è piuttosto ballerina, ma si viaggia decentemente. La campagna è meno devastata rispetto a quella vista arrivando.
Ci fermiamo a Fier, una cittadina a prima vista anonima, sulla strada per il sito archeologico di Apollonia. La attraversiamo da parte a parte, poi in corrispondenza di un grande bunker svoltiamo a sinistra. La campagna si apre, le tracce dell’uomo (finalmente) spariscono, a parte qualche raro bunker ormai coperto di vegetazione.

 

 

Apollonia

 

Colonnato vista mare
(94 KB)

 

 

Apollonia

 

Grande interpretazione!
(113 KB)

Arriviamo fin sotto le rovine, nascoste tra gli ulivi in una posizione fantastica poco sollevata rispetto al mare, azzurro in lontananza. Entriamo nel sito pagando coi pochi Lek che ci restano. Sulla destra un antico monastero affiancato dall’immancabile ristorante. Sulla sinistra, immerso tra gli olivi, sul fianco della bassa collina, l’antico teatro di cui restano l’impressionante colonnato frontale. Resti di mura ciclopiche si annodano sui fianchi della collina. Arrampicandosi si trovano altri resti. L’ambientazione e soprattutto i pochi visitatori facilitano le fantasie e i sogni su un’epoca irrimediabilmente perduta. Mi perdo sulla collina lasciando gli altri al teatro. Seguo le tracce delle mura, che scompaiono in pochi metri. La vista si apre anche sull’altro fianco della collina, non più verso il mare ma verso l’interno. Gli unici suoni che sento sono le cicale ed il vento che accarezza l’erba e le basse piante mediterranee. La domanda è sempre la stessa:
“Chissà com’era, una volta ...”, accompagnato da un profondo sospiro nostalgico.
Nostalgia di un tempo in cui la natura non era una vittima, ma una divinità da adorare e temere. Dove la Bellezza era un concetto che si applicava oltre che alle arti, molto sviluppate, anche all’architettura.

 

Apollonia

 

Fauno sull’olivo
(215 KB)

Torno dagli altri. Si sono fatti prendere dalla pace del posto. Decidiamo di partire perchè si fa tardi. In realtà abbiamo fame e la scusa dell’orario è buona per tornare quanto meno al ristorante vicino al parcheggio. Mangiamo un’insalata veloce, poi di corsa nel monastero a fianco.

 

 

Apollonia

 

Sirena pietrificata
(115 KB)

 

I capitelli sono quelli che colpiscono di più, con figure a metà tra il mitologico e l’esoterico. Nelle navate del chiostro sono raccolte alcune sculture recuperate dagli scavi greci.
Purtroppo dobbiamo davvero muoverci. Ci rimettiamo in moto. Breve sosta a Fier per riposarci. Lucia vede un bancomat e si fa tentare. Errore! La tessera viene trattenuta. La banca è chiusa, ma il centro commerciale alle sue spalle no. Entro, individuo una guardia giurata e gli spiego il problema.
Mi porta in uno dei negozi, i ragazzi conoscono la direttrice della filiale. Nel frattempo Alberto e Lucia bloccano la carta. Quando torno fuori, sono tutti raccolti attorno ad un tizio che, in italiano approssimativo racconta di aver fatto per diversi anni il muratore a Genova. Vuole offrirci a tutti i costi qualcosa da bere. Non faccio in tempo ad arrivare che il tipo, appena mi vede, mi prende sotto braccio e mi invita ad accompagnarlo a comprare delle Coca Cola.
Sono senza parole. Abbiamo già incontrato diverse persone che, appena sanno che siamo italiani, si profondono in ringraziamenti, complimenti, abbracci. Io avrei detto il contrario, visto l’accoglienza che viene loro riservata in molti casi.
Proseguiamo verso Valona. Il paesaggio migliora, la spazzatura però resta una costante. Il mare non sembra granchè.

 

 

Passo Lloragarase

 

I bellissimi A & L
(111 KB)

 

 

Passo Lloragarase

 

Tornanti a picco sul mare
(95 KB)

Improvvisamente una montagna sbarra la strada costiera, che inizia a inerpicarsi ripida, tornante dopo tornante. Ci ritroviamo in uno splendido bosco di pini monumentali. Poi si apre improvvisamente a volo d’uccello sul mare, blu con una leggera bruma laggiù, in fondo. É il Passo Lloragarase.
Rocce a picco sul mare, la strada è da vertigine, il vento soffia potente. Nei tornanti e nei fossati spicca colorata la spazzatura.
Lungo la discesa incontriamo diverse bancarelle. Vendono miele.
“Alla prossima ci fermiamo!”, propone Caterina.

 

Passo Lloragarase

 

Spaccio di miele
(118 KB)

Ne passiamo almeno un paio prima di decidere. Alla fine ci lasciamo convincere da una coppia di signore. Affianchiamo e parte la contrattazione, con degustazione dei diversi tipi di miele. Ci carichiamo di un bel barattolone pieno di dolcezza dorata.
Il pomeriggio sta finendo, iniziamo a cercare da dormire. Ora la strada corre alta sulla costa frastagliata. Appena vedo una deviazione la imbocco, precipitando verso il mare. Casino di auto ingarbugliate, chi sale e chi scende in questo budello.
Gli alberghi sulla spiaggia e la spiaggia stessa non ci colpiscono granchè, anzi. Il mare è bello, ma il resto non è attraente, nella sua perenne fatiscenza.
Le ragazze decidono di proseguire. Risaliamo. Improvvisamente, a imbuto, la strada si trasforma: da un metro all’altro diventa strettissima e tutta rotta, incredibile! Due auto che si incrociano devono fare attenzione. Se c’è un camper ci si blocca ingegnandosi su come passare, due ruote sulla pietra e due sulla “strada”. Supero anche un furgone che ha creato un discreto ingorgo, di persone comunque pazienti e rassegnate davanti all’evidenza dei fatti.
Il paesaggio è stupendo, tra olivi radi e gole di terra rossa, accese ancor di più dal sole che sta tramontando. Mi innervosisco, sono stanco e la strada è molto difficile da guidare. In cima ad un passo con un bar a picco sul mare chiedo informazioni. Vuno è molto vicina, mi dicono. Là dovrebbe esserci l’ostello del ragazzo conosciuto ieri mattina a Berat.
Arriviamo col buio, vediamo solo le quattro case attorno alla stradina. Una di queste è un bar, tanto basta per farci tornare il sorriso. La padrona chiama il ragazzo dell’ostello, noi facciamo aperitivo con birra, salsicce locali, peperoni, formaggio, olive.
Dopo una mezz’ora arriva un ragazzo, trafelato. É il nostro uomo! Ci indica come arrivare dalla strada, lui taglia dai boschi.
Troviamo tutto: il benzinaio in disuso da secoli (a proposito: la benzina! Chissà quando troveremo un altro benzinaio ...), la curva a gomito verso il nulla, il cartello Škola e il sentiero sterrato che arriva davanti al basso edificio. Una ex scuola materna, per l’appunto. Siamo immersi nel buio più assoluto, in mezzo ad un oliveto. Le stelle brillano come i nostri occhi, felici. Siamo in mezzo al nulla, solo il vento che fa suonare le fronde degli alberi, una luna meravigliosa che fa l’occhiolino, il mare dai riflessi argentati e, all’orizzonte, le luci di Corfù. [Ostello Škola: 7€ oppure 800 Lek a notte]
Siamo gli unici ospiti, ci dividiamo nelle due camerate: ampie stanze che una volta erano aule, ancora addobbate con vecchie cartine geografiche alle pareti, disegni con le lettere dell’alfabeto, bassi banchi in legno, col piano superiore che si alza a cassettone.
Alberto e Lucia hanno fame. Li accompagno in paese. Il ragazzo ci indica la strada nel bosco (“avete una torcia, vero?!”) e Caterina resta con lui e la sua fidanzata, raccolti attorno al fuoco, sui cuscini.
Mangio mezzo cocomero mentre Alberto e Lucia si fanno portare cibi più sostanziosi. Chiacchieriamo osservando le altre persone di questo incrocio tra un bar, un alimentari e una tavola calda, quando sentiamo una serie di colpi ed esplosioni in lontananza.
“I classici fuochi d’artificio estivi, arriveranno da Corfù!”, penso tra me e me.
Vedo le altre persone alzarsi e correre, proprio in direzione del mare, verso Corfù. I colpi proseguono. Sono un po’ strani, per essere dei fuochi artificiali, poi davvero tutti troppo eccitati. O sono incredibilmente belli o c’è qualcosa che non va. Inizio a pensare ad una lotta tra clan rivali, ma in un posto così remoto e semi-disabitato mi sembra semplicemente assurdo. Che devono controllare, il mercato della ricotta di contrabbando? Le olive di frodo??
Alberto e Lucia restano seduti a mangiare, io vado verso il punto dove sembra si veda meglio, a giudicare dalla ressa.
Non sono fuochi o meglio, è solo UN fuoco, per la precisione una fiammata altissima nell’oscurità del bosco sottostante.
Torno a riferire ad Alberto e Lucia, che si alza e va a vedere lei stessa. É spaventata, ma la rassicuro dicendo:
“Ma non preoccuparti! Il nostro ostello è da tutt’altra parte!”, dico indicando vagamente la stessa oscurità, ma più a ovest.
Arriva una telefonata di Caterina, probabilmente vorrà chiedermi se ho sentito i colpi:
“Fabio, non tornate assolutamente, restate là, qui sparano!!!” mi dice con la voce soffocata, terrorizzata.
“Come stanno sparando?!”, chiedo incredulo, per un evento così lontano dalla mia mente.
“Sì e fuori ci sono macchine che vanno e vengono sgommando e si sentono spari qui dietro! Restate là!!!”
In un attimo decido di scendere, non dubito neanche per una frazione di secondo che devo andare a vedere cosa sta succedendo e a proteggere Caterina... da non so chi. Lucia ha paura, restano su.
Io intanto, al buio, solo con la luna, mi precipito sul ripido sentiero nel bosco. Trovo la casa chiusa, completamente buia. Fuori non c’è nessuno. Entro, li trovo sdraiati per terra. Si alzano. Il ragazzo ha più paura di noi. Forse perchè sa meglio di noi cosa si rischia.
Sfrecciano altre auto sul sentiero proprio di fronte alla scuola. Polizia. Pare sia esploso un deposito di armi rubate, a pochi metri da noi. Altro che dall’altra parte del bosco!
Vado a vedere, da solo. Trovo diverse auto parcheggiate, ma quasi nessuno dentro. Uno di questi mi ferma con un cenno. Torno indietro. Il ragazzo dell’ostello mi racconta che ha chiamato la polizia e che, quando hanno saputo che aveva dei clienti, gli ha suggerito:
“Sono cose che capitano ... Dagli del raki, così dimenticano!”
Passiamo il resto della serata a ripercorrere gli attimi, le sensazioni, gli eventi. Ci salutiamo con una certa ansia intorno a mezzanotte.
Il buio è di nuovo assoluto. A parte la luna abbagliante. E le stelle.

Pagina precedente
Indice

Pagina successiva
Pagina 2

Torna all'inizio della pagina

Torna all’inizio
della pagina

Torna all'inizio della pagina